TRACCE DI PIACENZA/7

Ritornato in Italia, Innocenzo II si insedia a Pisa, dove riunisce, nel maggio-giugno 1135, un concilio che raduna la maggior parte dei vescovi dell’Italia settentrionale e centrale, ma anche secolari francesi che, come gli arcivescovi di Sens e di Reims, avevano partecipato al concilio di Troyes del 1129. Lo scisma di Anacleto è condannato; san Bernardo, che è presente, evidentemente è intervenuto in tal senso, ma è riuscito anche a convincere il papa e i prelati italiani ad appoggiare i templari. Innocenzo II stabilisce l’elenco di festività e digiuni che i templari dovranno osservare: sono i primi due capoversi dell’ordine, distinti dalla regola. Il papa si impegna inoltre a versare annualmente un marco d’oro per sostenere l’azione del Tempio, mentre i vescovi si impegnavano con un marco d’argento ciascuno. Il ripristino dell’autorità di Innocenzo II sui seggi scismatici di Milano e Piacenza apre la via a un insediamento stabile del Tempio in queste città, a Milano a partire dal 1135. Nel 1139 è lo stesso Innocenzo II che, con la bolla Omne datum optimum, concede al Tempio i suoi primi e più importanti privilegi. Non dimentichiamo questa frase: «è Dio stesso che vi ha costituiti difensori della chiesa e avversari dei nemici di Cristo».

A. Demurger, I templari. Un ordine cavalleresco cristiano nel medioevo, Garzanti 2006, p. 74

NON È BELLO CIÒ CHE È BELLO MA CHE BELLO CHE BELLO CHE BELLO

Domanda a bruciapelo: cos’è stato costruito di “bello” in Italia dopo l’unità?

Mi spiego: okay, va bene, il bello è un criterio molto soggettivo, però siamo tutti d’accordo nel dire che il duomo di Monreale è bello, che la reggia di Caserta è bella, che le ville del Palladio sono belle, no? Bene: negli ultimi 150 anni cos’è stato costruito in Italia per cui la gran parte delle persone che vede tali costruzioni subito pensa “Caspita, che bello”? E se non viene in mente nulla, perché non viene in mente? E se la domanda è idiota, perché lo è? – Leonardo

 

l’Eur – tamas

la Sapienza – tamas

San Siro – Bisax

Cimitero San Cataldo di Modena. – Andreoide

Proseguo o ci sono fulmini pronti a colpirmi? – Andreoide

il Dall’Ara di Bologna – tamas

http://www.settimazona.it/images/news/525.jpg – Guy

Io mi sono detto, visitando Gibellina Nuova, “che bello”, “che peccato”, “ma perché?” – zar da YouFeed

È brutto dirlo ma l’architettura fascista spaccava culi. Muzio, Terragni, Piacentini… Il Colosseo quadrato è un capolavoro. – yngnrjnwrrnrynwr

(cucino e ogni tanto vengo a guardare, eh, son qua che prendo nota) (e non ho mica la risposta esatta in tasca) – Leonardo

(per esempio, del cimitero san cataldo non so una beneamata fava) – Leonardo 

(Guy, eccelosò, ma mi riferivo all’architettura) (e no, niente design :)) – Leonardo

a me piace molto la Chiesa di Dio Padre Misericordioso, a Roma, e il Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto– viltrio

bisognerebbe capire meglio cosa s’intende per bello. – archi+ dadevoti

Porta Susa. (ok, la stanno ancora finendo, ma secondo me è bellizzima) – Jamesir Bensonmum

La Mole! – Arimsvotnpölpzwei

sono d’accordo con yngnrjnwrrnrynwr – AlessandraC

@Arimsvotnpölpzwei: uh, certo. E pensare che secondo il progetto originale sarebbe venuta una roba più o meno terribile. – Jamesir Bensonmum

domanda complessa soprattutto perché riguarda il periodo della “fine degli stili”, con l’Eclettismo che tende a riassumerli. Con le avanguardie (Futurismo in architettura) e il Liberty salta tutto e si risente del contributo delle arti applicate. A Milano si trovano grandi opere eclettiche e Liberty sottovalutate. Il Razionalismo italiano soprattutto tardo è rimasto meno destabilizzante di altre espressioni del Moderno per la sua sensibilità storica. In generale, con la fine dello storicismo si affermano tante diverse idee di bello in architettura: igiene, funzionalità, conservazione materiale, efficienza energetica… Comunque in generale dico Muzio, Gardella, Rossi, Michelucci e Scarpa. Tra i contemporanei, l’opera omnia di Marco Dezzi Bardeschi, il più grande secondo me, come progettista, come teorico della Conservazione architettonica, come storico. – Slow

e aggiungerei Carlo Scarpa. basterebbe questo: http://www.negoziolivetti.it/ – AlessandraC

(aggiungevo senza avere ancora letto Slow) – AlessandraC

non so se dico una cazzata ma secondo me non viene in mente subito perché c’è un confronto continuo con l’architettura antica che è abbastanza pesante culturalmente. E’ la ragione per cui per esempio Vicenza è una città abbastanza immobile dal ‘500, come se fosse difficile far di meglio e quindi non ci si provasse nemmeno. Però ecco: non so nulla di architettura ma è una cosa che penso della mia città ma che forse vale anche per molte altre. – chiaratiz™

A me il grattacielo Pirelli piace – Marco Beccaria

La tomba di Brion – zar

I cinemi. A Livorno, l’Odeon, nel 1954 era il più grande d’Italia, di recente è stato demolito per farci un parcheggio. – Lopo

A me piace qualcosa del razionalismo italiano, tipo l’ufficio postale di Ostia, o Sabaudia. Non ho mai capito perché le vengono a studiare dall’estero (tipo le palazzine di Libera che stanno su ogni libro di architettura del mondo) e all’italiano medio fanno schifo. Anche molte stazioni sono belle. – Numero 6

Credo in effetti che il confronto con l’antico pesi troppo – Lady M

palaisozaki a torino – Massimo MaxKava Cavazzini

A me gran parte dell’architettura razionalista piace. Giusto settimana scorsa ho visto un bellissimo edificio sul mare a Castiglioncello. – Guy

Di razionalista è bellissimo il PoliTo. – Jamesir Bensonmum

Palazzo del Lavoro a Torino – Annarella G.

Finirete per dire che è bella pure la Torre Velasca. – Lopo

(ma nessuno dirà che è bello l’Altare della patria) – Leonardo

La torre velasca e’ interessante 🙂 – Lady M

Credo che figure influenti come Bruno Zevi (partigiano) non vedessero di buon occhio il razionalismo, e questo ha pesato http://www.cosedipalio.altervista.org/vignetta_di_zevi1.htm – yngnrjnwrrnrynwr

Mi pare che sul razionalismo ci sia una discreta convergenza. Il periodo però lo frega un po’, secondo me. – Numero 6

(e no, l’Altare della patria no) – AlessandraC

l’altare della patria fa schifo – chiaratiz™

(ché poi a me, ‘sta domanda, l’ha fatta un amico architetto un paio di giorni fa, dicendomi che appunto, al di là del razionalismo e, che so, di Michelucci (lui mi citava la chiesa sull’autostrada, che in effetti anche per me è stata una delle poche opere contemporanee di fronte alle quali ho detto “Bello!”), mica gli venivano in mente altre costruzioni indiscutibilmente “belle”, e anche sul razionalismo aveva dei dubbi, che anch’io condivido. Insomma, torno a dire, ci sono opere che tutti diciamo “belle”, ma non tutti dicono che l’EUR o il grattacielo Pirelli sono belli, anzi!, per non parlare di altre costruzioni che voi citate. Tutti forse le troveranno interessanti e significative, ma “belle” probabilmente no. Perché?) (già Slow ne ha detto qualcosa, mi pare) (e LadyM sul confronto con l’antico, così come Chiaratiz) – Leonardo

+1 architettura fascista. di michelucci pure la stazione di santa maria novella – thomas morton

Per me c’è anche un problema economico: se vuoi le cose belle devi cacciare il quattrino. E quello ce l’hanno quasi solo i governi, in passato Chiesa e famiglie potenti (e governanti). – Numero 6

@archi+ dadevoti, ah, capisco, ma tentavo invece di darlo per scontato, nel senso di fermarmi, non saprei come dire, al bello condiviso, a quel che tutti consideriamo bello, al bello risaputo. So bene che così metto sotto il tappeto un problemone enorme ma al limite preferisco farlo ricicciare fuori alla fine. Intanto volevo capire se era vero, a livello di sentire comune, che di “bello ” in questi ultimi 150 anni ne è stato fatto poco. E così al volo, la prima impressione che ho è che no, almeno su FFeed molti non sono d’accordo, e che per loro dall’unità ad oggi qualcosa di bello si è fatto, eccome. Per me è già uno spunto interessante – Leonardo 

@Numero6, è esattamente la prima cosa che ho detto al mio amico, la democrazia (anche se in fieri) ha i suoi costi – Leonardo 

(incredibile, c’è chi mi manda dei DM sul tema, fra l’altro dicendo giustamente che il Teatro Massimo di Palermo è bellissimo, ed è di fine ‘800) – Leonardo

come diceva slow ci sono anche molti esempi di liberty da riscoprire. quanto alla democrazia, mi pare che il problema non sia quello (vedere spagna, vedere germania). piuttosto dovremmo parlare dei problemini dell’italia riguardo le pratiche di clientelismo, corruzione, malaffare, eccetera – thomas morton

Il problema di fondo è che c’è sempre più edilizia e sempre meno architettura. E poi, facendo finta che definire il “bello” non sia un problema, il bello è diffuso: ce n’è di più, ma minore. Penso a certi quartieri fin-de-siecle, e poco dopo, per esempio il Coppedè. Mattone eclettico? Ma ne vorrei diecimila, rispetto all’edilizia anni ’60-70… L’EUR è già stata menzionata, e quella stagione ha un grande fascino. Anche perché concreta improvvisamente le apparizioni oniriche delle piazze d’Italia di de Chirico. – Maurizio Nicosia

la galleria vittorio emanuele II di milano. – la galleria principe di napoli. – le stazioni delle grandi città… palermo, milano, bari, torino porta nuova, genova. molti giardini come il giardino bellini di catania… il teatro bellini di catania. il teatro accademia di conegliano…. il caffè pedrocchi di padova. il teatro massimo di palermo… la chiesa di sant’antonio nuovo a trieste. volendo anche la mole antonelliana… etc etc – chiricupa

Stazione Centrale a Milano? – Bob.Draco

il ponte sul mare a pescara? – F.

per dire una roba post2000 – F.

La Milano del boom era architettonicamente avanguardia internazionale. Si faceva speculazione, come sempre del resto, ma ci sono molti edifici belli, costruiti in fretta e male: Ponti, Asnago e Vender, Caccia Dominioni, Magistretti, Gardella, ecc. – Andreoide

(il bello è dettato dall’armonia delle varie parti nell’insieme. l’uomo è naturalmente dotato del senso della proporzione e armonia.) – chiricupa

Edifici belli potenzialmente, ma costruiti in fretta e male = bei progetti e edifici brutti (?) – Lady M

(insisto a dire, non solo prendo nota, ma ho inoltrato il link del thread all’amico architetto di cui sopra, quindi ringrazio tutti per i contributi passati presenti e futuri) (senza contare che continuo a girare su google a partire dai vostri input) – Leonardo

no, in effetti di bello ce n’è, anche se alcune delle cose che segnalate (per esempio, sant’antonio nuovo a trieste e, soprattutto, la centrale di Milano, che assimilo all’altare della patria…) non mi entusiasmano affatto. – Leonardo

@F., guarda, per me ci metterei dentro anche il ponte sul Po dell’alta velocità vicino Piacenza – Leonardo 

(proseguo con quel che mi viene in mente) il palazzo castiglioni di milano…il palace di varese. la sede leonardo del politecnico di milano. – chiricupa

anche la sede mondadori. – chiricupa

“il bello è dettato dall’armonia delle varie parti nell’insieme”: una visione _classica_ del bello su cui concordo appieno. Ma siamo certi che abbia ancora dimora nella contemporaneità? – Maurizio Nicosia

stavo giusto discutendo con la signora qui se con questo criterio, che pure pare di buon senso, Gaudì sarebbe “bello” – Leonardo 

Sì, ma il problema è che “armonia” è concetto instabile. – Marco Beccaria

l’Eur di Roma, così Fellini ha potuto inventarci tutti i suoi migliori film. – Neuromancer

almeno in archittettura, però, il concetto di “è bello quel che piace, è tutto soggettivo” dovrebbe essere più debole che altrove. gli edifici hanno una funzione, devono essere abitati, devono essere vissuti – thomas morton

@ maurizio nicosia … secondo me sì. se ci pensa è un’idea che è partita dalla grecia classica ed è arrivata fino a noi, con modifiche ovviamente. penso che abbia ancora senso parlare di proporzione e armonia poiché il corpo umano stesso è proporzionato e armonico… per quanto riguarda l’architettura contemporanea, è vero che le sperimentazioni talvolta finisco per scomporre la materia dandole una forma irregolare come ad esempio il guggenheim di bilbao ma secondo me sono solo esercizi di stile che non hanno nulla di veramente architettonico. @Leonardo… no, io credo che gaudì sia parecchio sopravvalutato. – chiricupa

+1 sul colosseo quadrato – piesio

Armonia non è concetto instabile. Come l’ha formulato chiricupa è abbastanza preciso, e possiamo dilatarlo un pochino: rapporto delle parti tra loro e col tutto. È un concetto strettamente musicale, che sottende precise proporzioni spaziali. C’era un tale che parlava di “consonanza”, per esempio. Armonia deriva da ‘harmozo’: congiungo. – Maurizio Nicosia

Eh, ma pensa alla dodecafonia: quel che può essere considerato armonico come composizione delle parti in un dato contesto/epoca può non esserlo in un altra. – Marco Beccaria

bravo maurizio. l’alberti paragona spesso l’architettura alla musica… arte, architettura e armonia. poesia per gli occhi. – chiricupa

pensavo la stessa cosa di Marco, il barocco è disarmonico al massimo, se visto da un rinascimentale, eppure ha una “sua” armonia. quindi sì, l’armonia ha a che fare col collegamento fra le parti, ma le modalità (le “regole”?) di questo collegamento possono cambiare, e quindi può “diventare” armonico quel che ieri non lo sembrava, no? – Leonardo 

@thomas, è vero, ma questo significa che il criterio della funzionalità è sinonimo di “bello estetico”? – Leonardo

il concetto di armonia non è instabile e non è neanche… come dire, arbitrario. il punto di partenza è sempre la sezione aurea. magari non in maniera esagerata come nel rinascimento, con il giusto margine di ritocco e fantasia dettato dal gusto contemporaneo ma, in definitiva, credo che l’uomo sia portato naturalmente al gusto della proporzione. nessuno vorrebbe una casa storta, e l’architettura deve rispecchiare il gusto di tante persone. una casa deve essere funzionale, solida, bella e armonica. – chiricupa

Il ponte che scavalca l’autostrada a Reggio Emilia. La basilica nuova di San Giovanni Rotondo. Il sacrario di Redipuglia – Andrea Tassi

@ Leonardo. il barocco non è disarmonico… non lo definirei disarmonico, il gotico potrebbe esserlo. il barocco invece è armonico, non è lineare nel decoro ma non è disarmonico – chiricupa

per dire… il colonnato di san pietro non si può definire disarmonico – chiricupa

nemmeno per i greci? nemmeno per i rinascimentali? quella del colonnato di san Pietro è un’armonia che nasce dai contrasti, un’idea di armonia che nasce in quel periodo storico, non prima e non dopo. l’armonia mi pare insomma che sia un criterio storico, non permanente, e così anche la “sensibilità” all’armonia è legata alla storia, ai tempi – Leonardo 

Anche l’armonia classica nasce dai contrasti. Più esattamente dall’equilibrio dei contrasti, dalla loro armonizzazione. I rapporti armonici non comportano necessariamente una composizione _statica_. Questa è una visione _neoclassica_, non classica. Cioè ingessata dell’armonia. Si possono ottenere composizioni dinamiche anche con le proporzioni armoniche – Maurizio Nicosia

okay, ma il fatto stesso che la visione classica di armonia sia diversa da quella neoclassica implica che il concetto di armonia sia soggetto a diverse interpretazioni, no? (motivo per cui comincio davvero a pensare che fra le tre domande che facevo nel primo commento al thread, quella davvero pertinente sia la terza :)) – Leonardo

che domande: il grande raccordo anulare – antonio pavolini

ma nella storia dell’architettura si è sempre (oddio, con giuste eccezioni) cercato di ricreare materialmente la perfezione umana. a parte le grandi cattedrali gotiche che volevano rendere l’uomo minuscolo al cospetto di dio. e come dici tu è un concetto legato al tempo… ovviamente una costruzione rispecchia le idee dell’uomo del suo tempo, di chi le crea. il rinascimento riprende i canoni greci, col neoclassicismo si riscoprono le proporzioni. se la domanda è ‘sono sopravvissute e arrivate fino a noi?’ la risposta è sì e no. è tutto legato al tessuto urbano. non ci saranno mai grattacieli a firenze, ad esempio… non sarebbero costruzioni in armonia con la città… – chiricupa

L’armonia non è un concetto giuridico, cristallizzato, ma è del tutto equivalente a una scala musicale: è un _principio_ dinamico (ripeto: non concetto, ma principio, modus mentale e operativo). E come con sette note possono comporre sia Mozart che Pupo, così accade anche in architettura e nelle arti visive – Maurizio Nicosia

anche se firenze stessa, era una città piena di grattacieli di legno – chiricupa

comunque, e concludo, l’architettura deve per forza sposare la funzionalità e solidità e armonia per dare quel ‘bello’ di cui si parla qui… la casa sulla cascata cade a pezzi, il colosseo è sopravvissuto pure al saccheggio dei barberini. quindi l’armonia è solo un aspetto, legato anche al gusto del tempo che modifica lievemente i canoni ‘naturali’ – chiricupa

Tutto il Liberty italiano, Portaluppi a Milano – la bellissima villa Necchi, che ora grazie al FAI si visita – il quartiere Coppedé a Roma, Basile a Palermo. Di altro genere, ma “costruito in Italia”, la tecnologia automobilistica, la Ferrari; le macchine Olivetti; molto design – palmasco

per me, come per il MDB citato sopra, oggi, è “bella” l’architettura che conserva lo stato di fatto ed eventualmente aggiunge con usi rispettosi dell’esistente. Del più formidabile edificio non direi mai che è bello se la sua costruzione ha comportato la demolizione di un lavatoio del Seicento – Slow

@leonardo. anche “funzionalità” sarebbe un concetto da precisare meglio. io odio il concetto di “arte per l’arte” in qualsiasi campo, e fin qui sticazzi, ma in architettura penso sia pressoché universalmente insostenibile – thomas morton

(p.s. per i precisi che qui abbondano, villa Necchi NON è architettura liberty, e in generale non lo è il lavoro di Portaluppi. Ho solo organizzato male la frase, scrivendo di fretta) – palmasco

vero thomas! si possono accettare i tagli della tela di fontana ma per l’architettura è diverso. il guggenheim di new york non è funzionale come galleria d’arte, ad esempio. come ho detto prima e come diceva alberti: firmitas, utilitas e venustas… con le dovute applicazioni alla contemporaneità – chiricupa

L’architettura è materia almeno quanto forma, senza il disordine, le stratificazioni, le asimmetrie e le dissonanze della prima non avremmo mai, quand’anche fosse presente e criterio estetico cogente, l’armonia di rapporti della seconda. Lo diceva anche l’Alberti quando enunciava i componenti degli intonaci romani nel suo trattato, tecnico quanto estetico. Altrimenti, oltre ai lavatoi seicenteschi, dovremmo demolire anche le cattedrali gotiche, senza essere sfiorati dal dubbio del loro valore storico e materico. – Slow

(da Friendfeed)

TRACCE DI PIACENZA/6

La seconda grande incursione magiara, nel 924, vide gli ungari, guidati da un capo di nome Salardo, comparire all’improvviso sotto le mura di Pavia e cingerla di un regolare assedio, una tecnica assolutamente inusuale per questo popolo. L’assedio fu condotto, però, secondo la tradizione magiara, appiccando il fuoco alla città con il lancio di frecce incendiarie. L’eroica difesa della capitale del regno italico convinse però gli ungari a risparmiare quanto restava della città in cambio del pagamento di un tributo.
Dopo Pavia gli ungari si diressero in Piemonte e da qui in Valle d’Aosta. Entrati quindi in Borgogna, vennero sconfitti da re Rodolfo II con l’aiuto di Ugo di Vienna, che di lì a poco, nel 926, con il nome di Ugo di Provenza sarebbe divenuto re d’Italia. Ma la sconfitta subita non impedì ai magiari in ritirata di compiere saccheggi e devastazioni per tutta la Provenza. Nel 927 fu la Toscana a essere messa a ferro e fuoco dagli ungari; e, come riferisce una tarda cronaca del XIII secolo, anche Piacenza dovette probabilmente subire una nuova razzia e fu incendiata nel 931.

P. Moro, Il ciclone magiaro. Le incursioni degli ungari in Italia, Storia e Dossier 66, ottobre 1992, p.34

I 42 CHE NON TI ASPETTI

A giugno mi sono state conteggiate dieci ore di lavoro extracurricolare da pagare a parte, col fondo d’istituto, per via delle decinaia di progetti e progettini di cui sono referente. Ho detto al segretario  Sì, vabbè, già mi pagate per la Funzione strumentale servizi studenti, non stiamo a guardare il capello, facciamo una cosa forfettaria e amen.
Ora il preside mi manda a chiamare, ad agosto, perché vuole che le ore siano documentate  nel dettaglio e su apposito modulo, uno per ogni attività svolta, perché – dice – non vuole irregolarità e non si sa mai che qualcuno ci faccia dentro.
Sottolineo “ad agosto” non perché ritenga che sia reato di lesa maestà far muovere il culo a un insegnante nei mesi estivi – ci mancherebbe! -, tanto più che i miei regolamentari giorni di ferie sono scaduti ieri, a ferragosto; ma perché su quelle ore da retribuire io e il preside già concordammo due mesi or sono, e avrebbero già dovuto essermi pagate, loro e le altre che non rientrano in questo capitolo ma che sono sempre fuori orario curricolare. E invece siamo qui a compilare moduli e a rifare conti.
C’ho messo due ore e mezza. Alcune attività le ho tenute fuori e sono stato sullo scarso, ché non mi fanno timbrare il cartellino e non è che tengo conto del minutaggio di tutto quello che faccio a scuola al di fuori delle mie ore di lezione.
Il totale ora è 42, il quadruplo di quel che a giugno avevo già accettato di ricevere.
Non so se è il senso della vita, dell’universo e di tutto quanto, ma qualcosa mi sa che significhi.

TRACCE DI PIACENZA/5

La trasformazione da mercante in prestatore si realizzò gradualmente attraverso la consuetudine con il cambio della moneta da parte dei mercanti lombardi operanti nelle fiere; l’eccessiva diffusione del diritto di battere moneta, legata al particolarismo politico, aveva infatti provocato una circolazione molteplice di monete di valore e corso diversi e oscillanti, sicché negli scambi internazionali occorreva una particolare competenza per assegnare a ciascuna il giusto valore di mercato. Astigiani, chieresi e piacentini si specializzarono in questa attività, molto remunerativa per chi fosse attento alla speculazione, e ottennero un primo riconoscimento ufficiale come “cambiatori”. La disponibilità di contante in diverse valute consentì loro poi di poterlo offrire sul mercato finanziario e di metterlo cosi in circolazione sotto forma di prestiti, nonostante i divieti canonici.

R. Bordone, L’usura all’italiana. Mercanti e usurai italiani del Medioevo, Storia e Dossier 69, gennaio 1993, pp. 39 s.

“L’INDUBITABILE SENSO DEL BENE”

E c’è sempre questa strana cosa, per la quale, quando finisco di leggere alcuni libri – e mi sembra che accada soprattutto coi libri -, sento di aver portato a termine un compito importante, di avere compiuto una piccola ma essenziale tappa della mia vita, di avere assolto ad un dovere che avesse a che fare addirittura col mio stesso essere al mondo.
Come se fosse questione di vita o di morte. Come se ne andasse della vita.
Boh, sarà che forse esagero. O che forse è proprio così.

Non so cos’altro potrei dire, di Anna Karenina.

TRACCE DI PIACENZA/4

Avversati ufficialmente dalla Chiesa, che condannava il prestito a interesse come peccato d’usura, i prestatori italiani erano ben conosciuti Oltralpe proprio con il nome di lombardi; spesso erano anche chiamati per analogia caorsini, dalla località di Caors in Provenza i cui abitanti erano dediti a questa attività. Sicché il termine lombardo o caorsino, perdendo connotazione geografica precisa, finì per indicare i presta denari di piccolo o medio cabotaggio insediati capillarmente nelle città o nei villaggi, distinti dalle agenzie delle grandi banche internazionali. Almeno al principio, tuttavia, il nome “lombardo” non era casuale o generico, poiché la maggior parte dei prestatori proveniva davvero da quella regione (comprendente gli attuali Piemonte, Lombardia ed Emilia) che nel Medioevo conservava l’antico nome di Longobardia o Lombardia: erano stati infatti piacentini, milanesi, chieresi, albesi e soprattutto astigiani a sviluppare l’attività creditizia, sicché Benvenuto da Imola, commentando Dante, a proposito degli abitanti di Asti scriveva attorno al 1376: “Pecuniosiores Italicis, quia sunt maximi usurarii”. Gli astigiani erano più ricchi degli altri perché più degli altri dediti all’usura.
L’attitudine agli spostamenti verso il mondo europeo da parte degli abitanti delle città della “Lombardia” è d’altra parte documentata fin dai secoli precedenti: pur tralasciando le tracce più antiche, conservate nei diplomi concessi dagli imperatori ai negotiatores delle città padane, sappiamo che i contatti con le aree europee di produzione di materie prime erano tenuti proprio dalle città dell’entroterra (“lombarde”, ma anche dell’Italia centrale), ben presto specializzate nel ruolo di mediazione fra i centri dell’Europa settentrionale e i porti mediterranei. Erano i lombardi delle città piemontesi, prime fra tutte Asti e Piacenza, ma anche toscani di Lucca e di Firenze ad affluire numerosi ai periodici incontri commerciali che dalla seconda metà del XII secolo si tenevano annualmente in quei centri della Champagne in cui confluiva la produzione francese e fiamminga.

R. Bordone, L’usura all’italiana. Mercanti e usurai italiani del Medioevo, Storia e Dossier 69, gennaio 1993, pp. 38 s.

TRACCE DI PIACENZA/3

Mentre il non expedit presupponeva, in linea di principio, un disconoscimento della legittimità dello Stato liberale, precludendo ai cittadini cattolici l’esercizio del diritto di voto (del resto riservato, sino al 1882, a una minima parte della popolazione), l’associazionismo cattolico godeva, in specie nelle aree settentrionali e centrali del Paese, di un seguito notevole, e trovò un fattore di coagulo nei periodici congressi dei cattolici italiani, avviati nel 1874 a Venezia, e nella formazione di comitati parrocchiali e diocesani. Essi produssero nel 1875 un organismo di coordinamento nazionale, l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici, che per circa un trentennio costituì l’asse organizzativo del movimento cattolico detto, per le sue posizioni, “intransigente”.
Non mancarono tuttavia gruppi di cattolici, in genere sostenuti da una parte minoritaria del clero e persino da alcuni vescovi (Bonomelli di Cremona, Scalabrini di Piacenza, Capecelatro di Capua) che si batterono contro la linea intransigente, sostenendo da un lato che lo Stato nazionale era da considerarsi un fatto irreversibile e, dall’altro, che la classe dirigente liberale non era da considerarsi tutta ugualmente avversa alla Chiesa e alla religione. Questa minoranza cattolica, detta “conciliatorista”, cattolico-liberale o transigente, raccoglieva in parte l’eredità del neoguelfismo, auspicando la rapida composizione del conflitto tra Stato e Chiesa, una soluzione di compromesso della questione romana, e l’intervento anche elettorale dei cattolici a sostegno dei liberali favorevoli al dialogo con la Chiesa.

F. Traniello, Una breccia da chiudere. I cattolici italiani nell’Ottocento, in Storia e Dossier 73, maggio 1993, p.8

 

TRACCE DI PIACENZA/2

Come trattare un gruppo umano di tal fatta? La Chiesa tentò di “sublimare” lo stato del lebbroso e nello stesso tempo di disciplinarne i comportamenti, non solo con l’assistenza religiosa, ma anche con la spinta a professare i voti di castità, povertà e obbedienza analogamente alle persone sane che si prendevano cura di loro, i cosiddetti “conversi”.
In alcuni casi lo sforzo sembrò approdare al successo, se si deve badare agli statuti di qualche lebbrosario. Ma gli stessi statuti mostrano diversità in proposito. Nella regola vigente nel lebbrosario di Parma, compilata con probabilità nei primi anni del Duecento, l’ammissione nell’istituto degli infermi avveniva con una professione di carattere religioso simile a quella dei conversi, e ai “malsani” di Trento, secondo quanto previsto dagli statuti emanati dal vescovo nel 1241, si offriva la possibilità di pronunciare i voti.
Ordinamenti come quelli di Piacenza e Pavia (1214 e 1216) escludevano invece per i malati lo stato religioso di conversi, indicando (come nel caso di Piacenza) quale sola regola l’astensione dal male nelle parole e nei fatti e la pazienza nel sopportare l’infermità, riducendo a qualche norma di elementare disciplina le costrizioni “religiose”. Un documento veronese che rispecchia la situazione del lebbrosario locale degli anni 1223-1225 fa parlare i malati ed esprime la coscienza che essi hanno di non potere essere assimilati a coloro che professavano i voti, offrendosi all’istituto con un formale rito di oblazione, in quanto si ritenevano incapaci di reggere i pesi della vita religiosa in senso stretto. È una delle rarissime testimonianze in prima persona dei “malsani“: tanto più interessante in quanto mostra direttamente gli ostacoli intrinseci al volere della Chiesa di una completa e reale introduzione del lebbroso alla condizione religiosa.

G. De Sandre Gasparini, La pietà oltre il muro. Lebbra e lebbrosari nel Medioevo, in Storia e Dossier 72, aprile 1993, p.42

AD LIBITUM

In apparenza Amedeo Balbi mette giù le cose in maniera diversa, ma mi pare che le osservazioni e le domande che Keplero formula all’inizio del suo post (e i cui sviluppi sono rintracciabili anche su FriendFeed) potrebbero essere riformulate e condensate nel seguente modo:

Le leggi di natura determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che… (ad libitum)

C’è qualcosa di strano in questo processo all’infinito. Non sta tanto nel fatto che, all’interno di questa sintetica illustrazione del determinismo fisico, ad un certo punto emergerebbe la figura di un soggetto intelligente che prende coscienza dell’esistenza di leggi che ne determinerebbero azioni e decisioni libere solo in apparenza, e che prendendo coscienza retrofletterebbe sulle leggi di natura lo stesso determinismo che le leggi di natura eserciterebbero nei suoi confronti (il che è già un bel problema, non fosse altro che per il dover render ragione di tutte le parole ed espressioni in corsivo cogliendone la genesi, ossia la natura delle pratiche che ne hanno reso possibile il venire al mondo).
No, quel che non torna, da subito, è che l’espressione leggi di natura viene usata in due sensi e due significati differenti. In apertura di frase starebbe ad indicare un dato oggettivo, le leggi di natura in sé e per sé, realmente esistenti. Nel prosieguo della frase starebbe invece ad indicare l’oggetto della presa di coscienza dei soggetti intelligenti, che quindi in qualche modo inventerebbero il concetto di leggi di natura utilizzandolo per spiegare il mondo così come si presenta; e questa sarebbe la conoscenza scientifica di cui le leggi di natura sarebbero l’oggetto.
L’insensatezza della visione deterministica dell’universo (insensatezza che, si badi, coinvolge in altri modi anche la visione opposta di un universo liberamente regolato da una volontà, umana o divina e provvidente, poco importa) sta tutta qui: nello scambiare una pratica di conoscenza per una realtà sostanziale, retroflettendo tale pretesa realtà nel ruolo dell’origine e pretendendo in aggiunta di spiegare a partire da essa la pratica di conoscenza da cui essa stessa trae origine.
Il che, per la verità, è proprio il destino della conoscenza scientifica del mondo nel momento in cui si allontana dalle proprie pratiche cedendo alla pretesa di spiegare la verità del mondo in assoluto, per tutti e per ciascuno.
Ossia quando pretende, senza saperlo, di farsi metafisica. O storicismo, che poi è la stessa roba.