COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 06

I test d’intelligenza vengono tuttora considerati validi. Pensavo che da mo fossero stati ridotti a passatempi estivi o a rubrica di rotocalco o di Cioè, e invece. Per esempio, la quarta e ultima versione del WISC (WISC-IV, Wechsler Intelligence Scale for Children) è del 2003 (introdotta in Italia nel 2012), quella del WAIS (WAIS-IV, Wechsler Adult Intelligence Scale) è del 2008 (in Italia dal 2013). Certo, questi test sono una versione estremamente evoluta, e modificata, dei vecchi testi di Binet e Simon, che passarono attraverso Terman, che divennero scala Stanford-Binet, e che generarono i test Alpha e Beta dei reclutamenti per la prima guerra mondiale che al mercato mio padre comprò. Ma sono comunque roba di un secolo fa, almeno come concezione di fondo. Eppure sembra che l’idea di misurare l’intelligenza di un individuo attraverso domande, test e quiz sia ancora del tutto accettabile. La mia ignoranza si perplime, e constata.

Il burro fa male. E fin qui. Ma la cosa interessante è che ne abbiamo la conferma ufficiale grazie ad una ricerca commissionata dalla Danish Dairy Industry, che di burro ne produce qualche tonnellata. Insomma: la Danish Dairy, un mostro che riunisce 34 produttori, una potenza capace di sottoporre a trasformazione la bellezza di circa 4.9 billion kg milk for high-quality products (!!!), ha pensato bene di sovvenzionare uno studio approfondito sulle qualità del burro, ovviamente allo scopo di incrementarne l’appetibilità, e quindi le vendite: il risultato è stato uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition in cui si sostiene che even moderate levels of butter consumption could result in higher cholesterol. At the very least, the study showed that butter raises blood cholesterol levels more than alternatives such as olive oil. E insomma, oggi ho imparato che è possibile, che possono esistere ricercatori capaci di fare il proprio lavoro obiettivamente e onestamente, senza sottostare agli interessi di KI LI PAKA!!1!

È da un bel po’ che non vado alla Lidl, e così non ero a conoscenza di quel che descrive La Due Dodici nel suo stato di Feisbuc. Per chi non potesse leggerlo, il fatto è che alcune catene di supermercati (e in Italia la prima è stata proprio Lidl) si sono stancate di subire in silenzio il furto di decine di carrelli ogni mese, con un danno che pare aggirarsi tra gli 80 e i 120 euro a pezzo. Hanno così munito i carrelli di un particolare tipo di ganascia che scatta automaticamente quando il carrello si allontana oltre una certa distanza dall’uscita del supermercato, che so, al di là del limite del parcheggio. E così l’incauto avventore che, più che tentare di fottersi il carrello, è uso utilizzarlo per portarsi la spesa fino a casa, va incontro a inaspettati e repentini schianti contro il maniglione nel momento in cui si trova ad oltrepassare l’invisibile confine. La Due Dodici dice che starebbe tutto il giorno a guardarli. La capisco, e provvederò a recarmi al più presto alla Lidl più vicina per unirmi a questa forma di umarellismo spinto e un po’ bastardo.

Ieri notte sono andato a prendere il ragazzo a Orio al Serio, di ritorno da Valencia. Viaggiare di notte, in piena estate, sul tratto Piacenza – Brescia dell’A21 è quasi come guidare in mezzo a una nevicata sul Pordoi: insetti di tutte le fogge e dimensioni, vorticanti come fiocchi di neve, spuntano di continuo dal nulla intersecando i fasci dei fari e vengono a schiantarsi sul parabrezza, sul cofano, sugli specchietti, dappertutto, al ritmo di centinaia al minuto, o comunque di svariate decinaia. Moscerini, moschini, farfalline, cavallette, locuste, cammelli. Di tutto. Un continuo crepitare e scoppiettare. Ho la macchina conciata come se fossi passato sotto uno stormo di gabbiani dall’intestino debole. Che poi, tra la quantità incredibile di insetti e la fantasmagoria di puzze che si avvertono tra Cremona e Manerbio, credo che i piedi neri del bambino siano proprio l’ultimo dei problemi di Ghedi.

AD LIBITUM

In apparenza Amedeo Balbi mette giù le cose in maniera diversa, ma mi pare che le osservazioni e le domande che Keplero formula all’inizio del suo post (e i cui sviluppi sono rintracciabili anche su FriendFeed) potrebbero essere riformulate e condensate nel seguente modo:

Le leggi di natura determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che… (ad libitum)

C’è qualcosa di strano in questo processo all’infinito. Non sta tanto nel fatto che, all’interno di questa sintetica illustrazione del determinismo fisico, ad un certo punto emergerebbe la figura di un soggetto intelligente che prende coscienza dell’esistenza di leggi che ne determinerebbero azioni e decisioni libere solo in apparenza, e che prendendo coscienza retrofletterebbe sulle leggi di natura lo stesso determinismo che le leggi di natura eserciterebbero nei suoi confronti (il che è già un bel problema, non fosse altro che per il dover render ragione di tutte le parole ed espressioni in corsivo cogliendone la genesi, ossia la natura delle pratiche che ne hanno reso possibile il venire al mondo).
No, quel che non torna, da subito, è che l’espressione leggi di natura viene usata in due sensi e due significati differenti. In apertura di frase starebbe ad indicare un dato oggettivo, le leggi di natura in sé e per sé, realmente esistenti. Nel prosieguo della frase starebbe invece ad indicare l’oggetto della presa di coscienza dei soggetti intelligenti, che quindi in qualche modo inventerebbero il concetto di leggi di natura utilizzandolo per spiegare il mondo così come si presenta; e questa sarebbe la conoscenza scientifica di cui le leggi di natura sarebbero l’oggetto.
L’insensatezza della visione deterministica dell’universo (insensatezza che, si badi, coinvolge in altri modi anche la visione opposta di un universo liberamente regolato da una volontà, umana o divina e provvidente, poco importa) sta tutta qui: nello scambiare una pratica di conoscenza per una realtà sostanziale, retroflettendo tale pretesa realtà nel ruolo dell’origine e pretendendo in aggiunta di spiegare a partire da essa la pratica di conoscenza da cui essa stessa trae origine.
Il che, per la verità, è proprio il destino della conoscenza scientifica del mondo nel momento in cui si allontana dalle proprie pratiche cedendo alla pretesa di spiegare la verità del mondo in assoluto, per tutti e per ciascuno.
Ossia quando pretende, senza saperlo, di farsi metafisica. O storicismo, che poi è la stessa roba.

BUON ANNO, VOYAGER 1!

Pare che il Voyager 1 stia finalmente arrivando al confine del Sistema Solare.
Come si può leggere qui, le particelle provenienti dal Sole, che hanno accompagnato la sonda fino all’attuale distanza di 17,4 miliardi di chilometri “colpendola alle spalle”, ora la investono sui fianchi, ad indicare che molto probabilmente il Voyager è davvero vicino all’eliopausa e in poco tempo (forse entro l’anno) si troverà nello spazio interstellare.
Certo, non se ne può essere del tutto sicuri, visto che prima d’ora nessun congegno costruito dall’uomo si è mai trovato da quelle parti.
E infatti già dieci anni e dieci miliardi di chilometri or sono si dicevano pressappoco le stesse cose!
Ma questa incertezza, lungi dal togliere fascino all’avventura del Voyager 1, caso mai la esalta vieppiù.

ScienceRay; Space.com

ARGOMENTO ONTOLOGICO PER MATEMATICI

L’insieme di Mandelbrot non è stato certamente un’invenzione di qualche mente umana. L’insieme esiste oggettivamente soltanto nella matematica stessa. Se ha senso assegnare una reale esistenza all’insieme di Mandelbrot, questa esistenza non è nelle nostre menti, perché nessuno può afferrare completamente l’infinita varietà e l’illimitata complicazione di questo insieme. La sua esistenza non può neppure trovarsi nella moltitudine di tabulati sfornati dai computer che cominciano a catturare parte della sua incredibile sofisticazione e della ricchezza di dettagli, poiché questi tabulati possono al più catturare un’ombra di un’approssimazione all’insieme. Esso, tuttavia, ha una forza al di là d’ogni dubbio; la stessa struttura, infatti, si rivela – in tutti i suoi dettagli percepibili, con sempre maggiore finezza quanto più è esaminato da vicino – qualunque sia il matematico o il computer che lo esamina. La sua esistenza può trovarsi solo nel mondo platonico delle forme matematiche.
(R. Penrose, La strada che porta alla realtà, 1.3)

E già se da questo solo fatto che posso trarre fuori dal mio pensiero l’idea di qualche cosa, ne consegue che tutto ciò che percepisco in maniera chiara e distinta come propria di quella cosa, realmente le appartiene, da ciò non si può forse trarre anche la prova dell’esistenza di Dio? Certo trovo in me l’idea di lui, cioè di un ente sommamente perfetto, non meno che l’idea di qualsiasi figura o numero; e non comprendo meno chiaramente e distintamente che l’esistenza eterna è propria della sua natura, di come che ciò che dimostro di qualche figura o numero riguarda anche la natura di tale figura o numero; e dunque, sebbene non tutte le cose, che in questi giorni passati ho meditato, risultassero vere, almeno l’esistenza di Dio dovrebbe essere presso di me nello stesso grado di certezza, nel quale sono state fino ad ora le verità della matematica.
(Cartesio, Meditazioni metafisiche, V, 7)

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe piú grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.
(Anselmo d’Aosta, Proslogion, 2-3)

Sono circa a pagina 30 di quell’enorme e affascinante mattone che è La strada che porta alla realtà, di Roger Penrose. Trenta pagine, la maggior parte delle quali impegnate a discutere filosoficamente sullo status delle verità matematiche. E io mi chiedo: ma perché?!
L’impressione è infatti quella di trovarsi di fronte ad una sorta di excusatio non petita, visto che nell’immaginario collettivo “Scienza? Funziona!”, “Matematica? Funziona!”, mentre “Filosofia? Pippa mentale!”. Eppure, non so, c’è qualcosa di strano. Come se il semplice dire “Funziona!” risultasse insoddisfacente agli stessi matematici, e la ormai secolare disputa sui fondamenti della matematica non fosse per niente conclusa. Ma vabbè, chissenefrega, il problema è loro, dei matematici.
Però nel mio piccolo, e nel caso specifico, mi stupisco sempre del come sia possibile per scienziati e matematici fare affermazioni apodittiche che difficilmente sarebbero perdonate a un filosofo, e meno che mai a un teologo.
No, dico: Penrose sostiene l’obiettività della verità matematica riconducendola esplicitamente all’esistenza di un mondo platonico, “un oggettivo modello esterno che non dipende dalle nostre opinioni individuali“, del quale sostiene l’esistenza con argomentazioni in fondo non dissimili dal famigerato argomento ontologico di Anselmo e Cartesio.
Ora, il problema non è innanzitutto la plausibilità o la modalità di esistenza di un simile mondo (che già pure è un bel casino).

Il problema, a mio parere, è che in questo modo il Penrose finisce per unirsi al vasto gruppo di matematici (e scienziati?) che tuttora continuano a ridurre (a elevare?) la matematica (la scienza?) a metafisica, senza rendersi conto che in questo modo finiscono per esporre la matematica (e la scienza) alle stesse identiche critiche e allo stesso identico processo decostruttivo che da Nietzsche in poi hanno compromesso prima le basi, e poi l’esistenza stessa della metafisica.
Ed è inutile rifugiarsi dietro il solito “ma la Scienza funziona!”: ad essere in discussione non è il fatto che la scienza e la matematica funzionino o meno, e il fatto di funzionare o meno di per sé non significa un bel nulla dal punto di vista filosofico. Questa pacifica e non pensata (ri)assimilazione della matematica alla metafisica dovrebbe essere una buona occasione per (ri)cominciare a riflettere sul vero problema, che non è tanto il fatto che la matematica e la scienza funzionino o meno, ma sul come sia possibile che funzionino.
A maggior ragione se – orribile a dirsi! – si poggiano su basi metafisiche.