COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 14

Piacenza è dal 1995 la città italiana col maggior numero di testate studentesche. Dice l’articolo sul Corriere che ce ne sono 18 attive ininterrottamente da 30 anni.
Si potrà discutere sulla valenza educativa del giornalino d’istituto e sulla qualità delle singole testate e degli articoli pubblicati. So però che i ragazzi che ci lavorano dentro (una ventina per ogni redazione scolastica) ci mettono voglia, passione e tempo, e portano a casa una maggiore confidenza col testo stampato e la strana idea che si possa esprimere quel che si pensa, e, ancor prima, che si debba pensare qualcosa.
Ma la cosa straordinaria è quest’uomo, che segue da trent’anni il mondo dei giornali d’istituto piacentini, il prof. Schinardi, splendido settantacinquenne che io ricordo come insegnante di italiano e latino di mio fratello, all’epoca adolescente pseudorivoluzionario da salotto (ehm, ciao Vito) ma letteralmente invaghito di questo strano prof che in un’epoca di alternatività obbligatoria e di conformisti controcorrente riusciva a far amare la letteratura italiana a chi reclamava il sei politico. E adesso che è in pensione è ancora lì che non molla, che coordina, motiva, spinge e organizza. Ce ne fossero, ancora.

Gli obiettivi di apprendimento relativi alla scrittura in lingua italiana al termine della scuola primaria, come elencati dalle Indicazioni per il curricolo – 2007, non sono alla portata di un buon 50% degli utenti dei social network. E sono stato basso.

Paasilinna, Piccoli suicidi fra amici.
Ho imparato che per Paasilinna il suicidio è irragionevole, sempre. La vita è cambiamento, mutamento, variare di circostanze. L’attimo che viene può portare con sé occasioni e incontri che rendono meno rilevante quanto è accaduto prima. Perfino tentare il suicidio può rivelarsi fonte di cambiamento ed essere la circostanza attraverso la quale la vita cambia. Il suicidio è un’impennata della volontà, ha senso se hai deciso che sei tu che decidi. Ma è una decisione, appunto. E come per quelli che dicono oh, insomma, io la penso così, mica è detto che se lo pensi, se lo decidi, sia vero.
Paasilinna descrive una specie di TripAdvisor dei posti d’Europa dove è più figo suicidarsi, ammesso che lo si voglia fare in massa e in modo spettacolare, tipo lanciandosi nel vuoto dentro un pullman. Il must pare essere Capo Nord. A giudicare dalle foto c’è andato in vacanza mezzo Feisbuc. Coincidenze? Mah.
In subordine vanno fortissimo i burroni delle Alpi svizzere, ma anche l’Algarve non è male, in faccia all’Atlantico, alla Fortaleza de Sagres.
E poi ho imparato che Il portoghese deriva dal tardo latino, e il sami dal bramito delle renne.

Regio Decreto 1054 del 6 maggio 1923. Un pezzettino di riforma Gentile: si decide che presidi e professori vadano in pensione a 70 anni. L’aspettativa media di vita alla nascita era di 51,1 anni. ‘Na truffa. L’Inps doveva essere miliardario.

COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 07

Il mio, personalissimo WTF?! del giorno consiste nella scoperta del fatto che non è necessario che le scuole paritarie abbiano, propriamente, un dirigente scolastico. Un preside, per capirci. Proprio così. Innanzitutto si parla non di dirigente scolastico, ma di coordinatore didattico. E l’impressione è che la legislazione, nel susseguirsi di circolari e note esplicative dal 2000 in poi, si sia fatta sempre più nebulosa e imprecisa, fino a delineare una situazione in cui non solo non è assolutamente necessario che alla guida di una scuola paritaria vi sia un dirigente scolastico, ovvero qualcuno che abbia passato un concorso per dirigenti; ma non è nemmeno strettamente necessario che vi sia un insegnante munito di abilitazione! (E qui il mio WTF?! raggiunge proporzioni mastodontiche, oserei dire siffrediche). Le varie circolari in fondo si limitano a dire che il coordinatore didattico: a) nelle scuole secondarie inferiori e superiori, deve essere provvisto di laurea o di titolo equipollente (abilitazione all’insegnamento: non pervenuta); b) deve avere titoli culturali o professionali non inferiori a quelli previsti per il personale docente (ancora una volta, l’abilitazione non viene espressamente nominata; ma – si dirà – c’è un riferimento esplicito ai “titoli professionali” del docente, no? Vero, ma la vedi quella “o” ? Ah, la diabolicità di quella “o”…); c) deve essere munito di esperienza e competenza didattico-pedagogica adeguata (e qui cascherebbe l’asino; peccato che misuratori di competenza pedagogico-didattica non ne abbiano ancora inventati); d) e comunque abbiamo anche una nota ministeriale che recita testualmente: Precisato che l’espressione “dirigente scolastico”, propria delle scuole statali e conseguente al relativo ordinamento del personale, non determina alcun obbligo di equiparazione nelle scuole paritarie… E quindi. Per carità, una logica c’è: le scuole paritarie hanno come principale referente non tanto il preside, ma il cosiddetto gestore. Per intenderci: stiamo parlando dell’ente ecclesiastico, o della Fondazione, o della famiglia di privati che possiede e gestisce l’istituto. È il gestore ad essere il garante dell’identità culturale e del progetto educativo della scuola, ed è l’unico ad essere ultimamente responsabile della conduzione dell’istituzione scolastica nei confronti dell’Amministrazione e degli utenti. Tuttavia, nel momento in cui le condizioni per il riconoscimento della parità, che per carità non vi sto ad elencare, prevedono nei fatti che l’istituto paritario funzioni in un modo del tutto identico a quello della tradizionale scuola cosiddetta “pubblica” – dagli organi collegiali al Pof, dalle attività di programmazione all’autonomia scolastica, dai millemila progetti alla gestioni minuta e quotidiana delle questioni burocratico-amministrative, dalla gestione dei rapporti coi docenti e con le famiglie all’attenzione alla qualità della didattica -, non si vede come sia possibile per chi non abbia, non dico una qualifica dirigenziale, ma almeno un’abilitazione all’insegnamento ed un minimo – un minimo! – di esperienza scolastica star dietro a tutto questo senza essere un mero pupazzo di gomma. E insomma, boh.

Il grande rottamatore. È il modo in cui Paasilinna, in Piccoli suicidi fra amici, si riferisce a Dio. Unite i puntini e fate voi le battute su Renzi, il renzismo e il parallelo col berlusconismo dell’Unto del Signore, che qui non possiamo pensare a tutto noi.

E già che ci siamo (ma qui non so se è una cosa che ho imparato oggi o un ricordo che viene a galla tra le nebbie dell’Alzheimer incipiente, come si scherzava nei commenti qualche giorno fa, e comunque scusate l’ignoranza politica): la prima Leopolda, quella del 2010, porcoggiuda, ma da chi fu organizzata? Sì, da Renzi, certo, ma insieme a chi? Ricordo che c’era un altro. Civati? Possibile?!

In caso di mobbing, l’onere della prova ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro spetta al lavoratore. Uhm.

Per Gardner l’intelligenza è multipla, ed è un’abilità: più precisamente, un’abilità con cui risolvere un problema o con cui realizzare un prodotto che ha valore in uno o più contesti culturali. Quest’ultima sottolineatura è bellissima. Essere in grado di trovare l’acqua nel deserto del Kalahari è un’abilità che nel boscimano denota una spiccata intelligenza. Da noi, i 67.000 followers di Gasparri su Twitter o le 100 milioni e rotti di visualizzazioni del Pulcino Pio su YouTube, denotano un’intelligenza spiccata in Gasparri e nell’autore del Pulcino Pio. Stacce. Se non ti piace, è inutile che te la prenda con me, con Gasparri o col Pulcino Pio: se problema c’è, sta in quel che il nostro contesto culturale considera valore.

CITAZIONI PER UN ANNO

(Pensieri sparsi, ritagli di kindle, rimasugli di quel che s’è letto quest’anno. Non il meglio di, ma qualcosa che è rimasto. Un sorriso, una cazzata. Un avanzo di Natale. Un pegno di futuro, chissà)

 

 

Rutja si ricordò che un giorno Ägräs aveva affermato che i cristiani consideravano peccato tutto ciò che era piacevole. Evidentemente doveva essere peccato andare al gabinetto, visto il sollievo che se ne traeva. Strano che non se ne parlasse di più nella dottrina cristiana. Forse il peccato veniva nascosto, come si poteva arguire dal fatto che si facessero i propri bisogni da soli. Doppia morale, constatò Rutja.
(A. Paasilinna – Il figlio del dio del tuono)

Mi sovvenne un vetusto paradosso da viaggio nel tempo, e lo tirai fuori: “Sì, ma se uno tornasse indietro e uccidesse suo nonno?” Al mi diede un’occhiata perplessa: “Perché cazzo uno dovrebbe fare una cosa del genere?”
(S. King – 22/11/63)

Enrico Fermi, il fisico italiano che vinse il premio Nobel per la fisica nel 1938, pare abbia detto: “Se riuscissi a ricordare il nome di ogni particella subatomica, sarei un botanico.”
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

Royal Society for the Prevention of Accidents (RoSPA)
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

Il filosofo francese Cartesio credeva che ogni essere umano avrebbe potuto vivere quanto i patriarchi biblici – circa mille anni – ed era convinto di essere sul punto di svelare il segreto quando morì nel 1650, a cinquantaquattro anni.
(J. Mitchinson – Il libro dell’ignoranza)

“Non ho paura di morire, – pensò con convinzione. – Quello che mi fa paura è di essere ingannata dalla realtà. Di essere abbandonata dalla realtà”.
(H. Murakami – 1Q84)

Non c’è posto al mondo in cui ci siano più stupide al metro quadro di un’università californiana.
(R. Bolaño – 2666)

Le parve vecchia nel senso comune che le persone danno alla parola, vicina al suo termine come le promesse mantenute.
(M. Murgia – Accabadora)

Si invecchia quasi prima di maturare.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

Chi si ama di più lo si offende più di ogni altro.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

L’uomo non può neppure esistere senza inchinarsi; un simile uomo non sopporterebbe se stesso, né nessun altro uomo ci riuscirebbe. E se rinnegherà Dio, si inchinerà a un idolo, di legno o d’oro, o del pensiero.
(F. Dostoevskij – L’adolescente)

Non c’è niente di peggio che continuare a vivere accanto a un eroe dopo che questi ha già speso il suo eroismo.
(A. Gimenez-Bartlett – Riti di morte)

Mentre ero assorta in quei tristi pensieri, la sigaretta senza filtro che stavo fumando mi si disfece un poco fra le labbra. Una scusa perfetta per sputare.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Se devo dimenticati mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Ci misero un po’ a ricordarsi che, quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui – altro non c’è, di adatto.
(A. Baricco – Mr Gwyn)

Forse al vecchietto vennero delle specie di lacrime agli occhi, ma era impossibile dirlo, perché gli occhi dei vecchi piangono sempre un po’.
(J. Steinbeck – Al Dio sconosciuto)

“Tutti furono felici quando venne la pioggia. Non poterono sopportare quella gioia e fecero il male. La gente fa sempre il male quando è troppo felice.”
(J. Steinbeck – Al Dio sconosciuto)

“È amaro esser bambini”, pensò. “Ci sono tante superfici nuove e pulite da graffiare.”
(A. Baricco – City)

“L’INDUBITABILE SENSO DEL BENE”

E c’è sempre questa strana cosa, per la quale, quando finisco di leggere alcuni libri – e mi sembra che accada soprattutto coi libri -, sento di aver portato a termine un compito importante, di avere compiuto una piccola ma essenziale tappa della mia vita, di avere assolto ad un dovere che avesse a che fare addirittura col mio stesso essere al mondo.
Come se fosse questione di vita o di morte. Come se ne andasse della vita.
Boh, sarà che forse esagero. O che forse è proprio così.

Non so cos’altro potrei dire, di Anna Karenina.

QUEL CHE RESTA

Sto leggendo l’Antologia di Spoon River. Piano, a piccole dosi.
E mi rimane appiccicata addosso la dolorosa sensazione che quando non ci sarò più di me resteranno solo il rancore, i rimpianti, l’invidia e il vuoto di tutte le mancanze di una vita.
Che ci son cose che già adesso non han rimedio.
Mentre io non desidero altro che pace.
O forse è solo sbagliato l’approccio.

ORA, MA ANCHE SEMPRE

Alla periferia di Bloemfontein si erge, imponente e cupo, un memoriale per le donne e i bambini morti nei campi di concentramento.

Non si parla di nazisti, ma di inglesi. E gli ospiti dei campi di concentramento non sono ebrei, ma i familiari dei soldati boeri in guerra contro l’impero britannico.

In tale memoriale sono seppelliti, accanto a quelli del presidente del Libero Stato di Orange durante la guerra, i resti della figlia di un sacerdote della Cornovaglia, di nome Emily Hobhouse, una delle prime attiviste, nel ventesimo secolo, contro la guerra.

Nel 1900 la Hobhause venne a conoscenza della situazione delle donne e dei bambini boeri e decise di recarsi in Sudafrica per aiutarle.

Creò un Fondo di assistenza per le donne e i bambini sudafricani, «per nutrire, vestire, ospitare e salvare donne e bambini – Boeri, inglesi e di altre nazionalità – ridotti in miseria in seguito a distruzione di proprietà, sfratto o altri incidenti dovuti (… ) alle operazioni militari». Poco dopo il suo arrivo a Città del Capo, nel dicembre 1900, ottenne (…)  il permesso di visitare i campi di concentramento. (…)  L’assoluta inadeguatezza della sistemazione e delle condizioni igieniche, con il sapone che veniva considerato dalle autorità militari «un articolo di lusso», la scandalizzò profondamente. (…) Visitò altri campi, a Norvalspont, Aliwal Nord, Springfontein, Kimberley, Orange River e Mafeking. In tutti trovò le stesse condizioni. E quando ritornò a Bloemfontein, queste erano peggiorate. Nel tentativo di porre fine alla politica dell’internamento, la Hobhause tornò in Inghilterra, ma il ministero della Guerra si rivelò più o meno indifferente. (…) Il governo accettò di nominare una commissione di donne, guidate da Millicent Fawcett, per verificare le affermazioni della Hobhause, che da tale commissione venne comunque (…) esclusa. Offesa, cercò di raggiungere il Sudafrica, ma non poté neppure arrivare al mare. Le restava ormai una sola arma: l’appello all’opinione pubblica. (…) La commissione Fawcett non era innocua come aveva temuto la Hobhause: stilò un rapporto durissimo e ottenne rapide migliorie nelle forniture mediche dei campi. (…) Anche Chamberlain era rimasto scandalizzato dalle rivelazioni della Hobhause e si affrettò a trasferire la responsabilità dei campi alle autorità civili. Le condizioni migliorarono con notevole rapidità: il tasso di mortalità passò dal 34% dell’ottobre 1901 al 7% nel febbraio 1902 e al 2% nel maggio dello stesso anno. (…) Le rivelazioni della Hobhause sui campi scatenarono nell’opinione pubblica una furibonda reazione di sdegno contro il governo. In Parlamento, i liberali colsero l’opportunità. Avevano trovato l’occasione ideale per rompere la coalizione fra Tory e seguaci di Chamberlain che aveva dominato la politica inglese per quasi due decenni.

Lo sdegno per il modo in cui era stata condotta la guerra anglo-boera e le rivelazioni della Hobhause sulle condizioni dei campi di concentramento spostarono decisamente a sinistra la politica inglese degli anni successivi al 1900, con conseguenze incalcolabili sulla storia inglese e sul futuro dell’Impero britannico.
Il voto alle donne in Inghilterra venne concesso soltanto nel 1923. Fu un successo certamente dovuto al movimento delle suffragette guidate da Millicent Fawcett, ma soprattutto al cataclisma della prima guerra mondiale. Quando la Hobhause si mobilitò, andò dall’altra parte del mondo e riuscì a infiammare l’opinione pubblica inglese, il contesto era quello di una società in cui la voce delle donne era sotto tutti gli aspetti trascurata e emarginata. Se ebbe successo ciò avvenne, credo, innanzitutto perché era una gran brava persona, con un senso altissimo della dignità propria e altrui. E questo viene prima di tutte le condizioni politiche e sociali: queste senza quello non producono alcun frutto, mentre il contrario può accadere.
Allora mi vien da pensare che forse il nostro problema non sta tanto nella difesa di categorie o generi, quanto nella capacità di creare singoli esseri umani capaci di uno sguardo su di sé e sugli altri simile a quello della Hobhause. Uno sguardo capace anche di giudicare, e di dire che certe scelte di vita sono conformi alla dignità propria e altrui, e altre no, che certe scelte fanno crescere e sviluppare la società e le relazioni umane, altre no.

Insomma, forse il nostro problema non è giuridico o genericamente sociale.

Tanto per cambiare è un problema educativo.

(le citazioni sono tratte da N. Ferguson, Impero, Mondadori, MI 2009, pp. 232-234, EAN 9788804589471)

IL RECENSIVENDOLO. OBLÒMOV

A me Oblòmov racconta una storia ben più tragica del solito, trito bla bla sulla pigrizia: la storia di come si possa perdersi e gettarsi via rifiutando l’impegno con la vita, o riducendolo alla propria misura. Che non è esser pigri, attenzione: è un’altra cosa, più sottile e pericolosa.
Certo, Oblòmov non fa una beata fava da mane a sera. Ma il vero problema di Oblòmov non è la sua “pigrizia”, è il suo consapevole scegliere di rifugiarsi in una realtà onirica e mentale invece di impegnarsi con quel che la vita impone: i resoconti dell’amministratore delle sue terre, la lettera di sfratto inviata dal padrone di casa, l’amore di Ol’ga. Il’ja Il’ic non
si è mai dato la possibilità di osservarsi in azione, e così non ha potuto far emergere, e quindi conoscere, tutti gli aspetti e le risorse della sua personalità. Sì, certo, è tanto buono e tanto, tanto tenero, ma non basta esser buoni, non dico per trovar moglie (Ol’ga ci mette un bel po’ a dargli il benservito; appena prende coscienza dell’irrecuperabilità di Il’jà Il’ic, però, non ci pensa due volte), ma anche solo per sviluppare se stessi. Oblòmov è buono come è buono il principe Myškin dell’Idiota, ma anche Myškin con tutto il suo darsi d’attorno finisce con lo scoprirsi (per ragioni del tutto diverse) tragicamente inadeguato alla vita.
Ma non è che Stolz – il suo fraterno amico, il suo alter ego, attivo, giramondo, avido di letture e di esperienze – stia tanto meglio. Incomparabilmente superiore a Oblòmov quanto a conoscenza del mondo, delle cose e di se stesso, ha tuttavia ridotto l’esperienza ad attivismo, e quel che vive, quel che impara, non lo giudica: si limita a ritrasmetterlo, a ripeterlo. È come se gli mancassero criteri adeguati per interpretare l’esperienza. Vorace lettore di tutto quel che gli passa per le mani, non possiede un centro al quale riportare il tutto. E quando
esprime un giudizio i suoi criteri non sono mai tutt’uno con la sua persona, sono sempre esterni, un copy & paste ricavato dalle sue sterminate e disordinate letture. Stolz in fondo – e la cosa è tanto più tragica quanto meno è consapevole – è un alienato. Come tanti, come chiunque viva a partire da misure non sue. Ma sono le misure alla moda, le misure di tutti, le misure di chi è trendy e à la page, e quindi Stolz è un figo, e l’alienazione è inavvertita.
Chi ha fatto davvero esperienza, chi si è realmente impegnata con la vita è Ol’ga; e infatti è l’unica che nel corso del romanzo manifesti un effettivo sviluppo, una crescita.
L’abisso tra Stolz e e sua moglie si rivela, verso la fine del romanzo, nell’angoscia di Ol’ga, tormentata da una tristezza indefinibile proprio quando tutto, nella sua esistenza, sembra essere andato a posto nel migliore dei modi.
Di fronte a un’Ol’ga che (per dirla con Tommaso d’Aquino) descrive tale tristezza come desiderio di un bene assente, come esperienza della strutturale e costitutiva incommensurabilità tra il desiderio umano di senso e qualunque suo tentativo di  realizzazione – sperimentato sempre come parziale e insufficiente -, Stolz si rivela del tutto inadeguato: prima interpreta la tristezza di Olga come frutto dei nervi (si sa, le donne). Poi finisce per ammettere che questa esperienza costituisce l’espressione suprema della maturità umana – e si stupisce di quanto sia cresciuta Olga, riconoscendola addirittura superiore a sè in questo ambito; ma l’unica cosa che sa proporre alla moglie come risposta a questa sete di infinito è, da un lato, l’invito ad immergersi nel compiacimento estetico per la propria grandezza d’animo e sensibilità, dall’altro, il volontarismo, l’attivismo, il senso del dovere, il buttarsi nella vita per quel che la vita richiede, non badando all’insoddisfazione e non indagandola nel profondo. In fondo, banalizzandola.
In un contesto in cui l’esperienza religiosa tradizionale viene assimilata senza residui alla vita arcaica dei servi della gleba, all’immobilità e al fatalismo dei contadini e dei domestici di Oblòmov, forse non poteva esservi altra risposta da parte di Gončarov: l’illusione di Stolz e di Ol’ga sarà quella di trovare risposta all’insoddisfazione esistenziale e alla domanda di senso che l’impegno con la vita risveglia – nell’impegno stesso. Cieco e immotivato.
I nipoti di Ol’ga e di Stolz tenteranno di dare una risposta in fondo non  dissimile aderendo alle parole d’ordine della Rivoluzione d’Ottobre. E ancora una volta l’esito si rivelerà tragicamente insoddisfacente.

DOMANDE D’ESAME PER CONCORSO PUBBLICO

Logica e filosofia (!):

Quali metodi sperimentali possono venir usati per determinare l’autentico antecedente in fenomeni per i quali sia possibile una pluralità di cause.

Classificate gli errori.

Filosofia morale (!!):

Descrivete le diverse circostanze di situazioni che danno origine al piacevole senso del potere. [Classica domanda trappola!]

Specificate, per quanto vi riesce possibile, i diversi doveri che possono venir compresi nell’unica parola: Giustizia.

Elencate gli argomenti pro e contro l’utilità, considerata come la base (1) effettiva e (2) giusta della morale. (*)

Ma a quale caspita di amministrazione vogliono accedere i candidati di un simile concorso?!
Risposta: l’Indian Civil Service, l’amministrazione civile che governò l’India britannica fino all’indipendenza.
Un’amministrazione che nel 1939 aveva 1384 funzionari al servizio di circa 400 milioni di persone, ma che sino alla fine dell’800 non reputò quasi mai necessario elevarne il numero sopra ai 900.
Ragazzi di 18 anni che nel 1859 facevano a cazzotti per andare dall’altra parte del mondo ad amministrare la parte più importante dell’impero e che – soltanto due anni dopo la rivolta dei sepoys, un’orgia di sangue, violenze e massacri quale l’impero aveva mai conosciuto – venivano selezionati innanzitutto in base alle loro abilità logico-dialettiche, o alle concezioni etiche da essi abbracciate, o alle conoscenze di storia, brutalmente mnemoniche e nozionistiche:

Enumerate le principali colonie inglesi, e dite come e quando l’Inghilterra abbia acquistato ognuna di esse.

Elencate i successivi governatori generali dell’India fino al 1830, con le date dei loro rispettivi governi, e stilate un breve sommario delle principali transazioni che sono state condotte con l’India sotto ognuno di loro.

Evito di chiedermi se gli attuali metodi di selezione del personale amministrativo delle nostre regioni e provincie siano davvero più indicati a individuare gli elementi migliori e più adatti al servizio, e se l’esito delle nostre selezioni dia luogo ad amministrazioni migliori.
Senza parlare della dimensione numerica dell’intero apparato.

(*) da N. Ferguson, Impero, Mondadori 2009, ISBN 9788804589471, p. 160. Qui il libro, qui una recensione.

ARGOMENTO ONTOLOGICO PER MATEMATICI

L’insieme di Mandelbrot non è stato certamente un’invenzione di qualche mente umana. L’insieme esiste oggettivamente soltanto nella matematica stessa. Se ha senso assegnare una reale esistenza all’insieme di Mandelbrot, questa esistenza non è nelle nostre menti, perché nessuno può afferrare completamente l’infinita varietà e l’illimitata complicazione di questo insieme. La sua esistenza non può neppure trovarsi nella moltitudine di tabulati sfornati dai computer che cominciano a catturare parte della sua incredibile sofisticazione e della ricchezza di dettagli, poiché questi tabulati possono al più catturare un’ombra di un’approssimazione all’insieme. Esso, tuttavia, ha una forza al di là d’ogni dubbio; la stessa struttura, infatti, si rivela – in tutti i suoi dettagli percepibili, con sempre maggiore finezza quanto più è esaminato da vicino – qualunque sia il matematico o il computer che lo esamina. La sua esistenza può trovarsi solo nel mondo platonico delle forme matematiche.
(R. Penrose, La strada che porta alla realtà, 1.3)

E già se da questo solo fatto che posso trarre fuori dal mio pensiero l’idea di qualche cosa, ne consegue che tutto ciò che percepisco in maniera chiara e distinta come propria di quella cosa, realmente le appartiene, da ciò non si può forse trarre anche la prova dell’esistenza di Dio? Certo trovo in me l’idea di lui, cioè di un ente sommamente perfetto, non meno che l’idea di qualsiasi figura o numero; e non comprendo meno chiaramente e distintamente che l’esistenza eterna è propria della sua natura, di come che ciò che dimostro di qualche figura o numero riguarda anche la natura di tale figura o numero; e dunque, sebbene non tutte le cose, che in questi giorni passati ho meditato, risultassero vere, almeno l’esistenza di Dio dovrebbe essere presso di me nello stesso grado di certezza, nel quale sono state fino ad ora le verità della matematica.
(Cartesio, Meditazioni metafisiche, V, 7)

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe piú grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.
(Anselmo d’Aosta, Proslogion, 2-3)

Sono circa a pagina 30 di quell’enorme e affascinante mattone che è La strada che porta alla realtà, di Roger Penrose. Trenta pagine, la maggior parte delle quali impegnate a discutere filosoficamente sullo status delle verità matematiche. E io mi chiedo: ma perché?!
L’impressione è infatti quella di trovarsi di fronte ad una sorta di excusatio non petita, visto che nell’immaginario collettivo “Scienza? Funziona!”, “Matematica? Funziona!”, mentre “Filosofia? Pippa mentale!”. Eppure, non so, c’è qualcosa di strano. Come se il semplice dire “Funziona!” risultasse insoddisfacente agli stessi matematici, e la ormai secolare disputa sui fondamenti della matematica non fosse per niente conclusa. Ma vabbè, chissenefrega, il problema è loro, dei matematici.
Però nel mio piccolo, e nel caso specifico, mi stupisco sempre del come sia possibile per scienziati e matematici fare affermazioni apodittiche che difficilmente sarebbero perdonate a un filosofo, e meno che mai a un teologo.
No, dico: Penrose sostiene l’obiettività della verità matematica riconducendola esplicitamente all’esistenza di un mondo platonico, “un oggettivo modello esterno che non dipende dalle nostre opinioni individuali“, del quale sostiene l’esistenza con argomentazioni in fondo non dissimili dal famigerato argomento ontologico di Anselmo e Cartesio.
Ora, il problema non è innanzitutto la plausibilità o la modalità di esistenza di un simile mondo (che già pure è un bel casino).

Il problema, a mio parere, è che in questo modo il Penrose finisce per unirsi al vasto gruppo di matematici (e scienziati?) che tuttora continuano a ridurre (a elevare?) la matematica (la scienza?) a metafisica, senza rendersi conto che in questo modo finiscono per esporre la matematica (e la scienza) alle stesse identiche critiche e allo stesso identico processo decostruttivo che da Nietzsche in poi hanno compromesso prima le basi, e poi l’esistenza stessa della metafisica.
Ed è inutile rifugiarsi dietro il solito “ma la Scienza funziona!”: ad essere in discussione non è il fatto che la scienza e la matematica funzionino o meno, e il fatto di funzionare o meno di per sé non significa un bel nulla dal punto di vista filosofico. Questa pacifica e non pensata (ri)assimilazione della matematica alla metafisica dovrebbe essere una buona occasione per (ri)cominciare a riflettere sul vero problema, che non è tanto il fatto che la matematica e la scienza funzionino o meno, ma sul come sia possibile che funzionino.
A maggior ragione se – orribile a dirsi! – si poggiano su basi metafisiche.