COSE CHE HO IMPARATO OGGI – 04

Credevo che il Monte Bianco fosse stato scalato, ad essere generosi, nel milleottocentoequalcosa. E invece, grazie al doodle di Google di oggi, scopro che la prima scalata è del 1786. Non mi capacito. Mi immagino uomini dell’ancien regime, in calze di lana, sciarponi e parrucca, affrontare un’impresa che io oggi eviterei non fosse che per risparmiarmi la spesa dell’attrezzatura. Invece questi, hop hop, e vanno su vestiti da honnête homme di fine Settecento. Nel 1808 va su perfino la prima donna, in gonnellona plissettata e stivali fino alle ginocchia. Un altro pianeta.

Oggi è la storia a farla da padrona. Grazie al ClassiCult del Fraccalvieri, leggo la notizia della scoperta del monolite sommerso al largo della Sicilia, a metà strada da Pantelleria. Là dove oggi non c’è che acqua a perdita d’occhio, i Siciliani del Mesolitico drizzavano menhir da decine di tonnellate. Stiamo parlando di undicimila anni fa. Nemmeno erano nati i quadrisavoli degli spermatozoi del primo celta padano! I romani non esistevano nemmeno a livello di antenato di Enea, Troia era ben lungi dall’essere una città e già i siciliani modellavano pietroni megalitici. Sono undicimila anni che lavorano, ci credo che oggi sembrano prendersela un po’ comoda: è stanchezza. Unita alla saggezza e al disincanto di chi era al centro di una civiltà dalle caratteristiche omogenee sparsa per buona parte del Mediterraneo in un’epoca in cui il Mediterraneo, come lo conosciamo oggi, nemmeno esisteva.

Non tutti nella capitale nascono i fiori del male. Qualche testa di minchia senza pretese l’abbiamo anche noi in paese, e così stamattina scopro che a meno di due, trecento metri da casa mia un esemplare rappresentante della categoria ha passato la notte a dar fuoco alle automobili. Quattro, per la precisione. La Kia l’ho subito spostata in garage, penso che stanotte chiederò al figlio di dormire nella 106.

Il gioco 20 Questions, nelle sue versioni da tavolo e elettronica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosino e stucchevole), nasce paro paro da una strategia pedagogica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosina e stucchevole) inventata dal solito Bruner per stimolare negli alunni l’apprendimento per scoperta. Agli allievi veniva proposto un problema, e avevano a disposizione appunto venti domande per trovare la soluzione. La strategia giusta è partire dalle domande più generali per poi restringere progressivamente il campo, chevvelodicoaffà.

Il tutor è colui che affianca nell’apprendimento o nella scoperta il soggetto in apprendimento: lo sanno pure li cani, e quindi lo sapevo pur’io. Ma come si chiama il soggetto in apprendimento? Forza, potete farmi venti domande.

Eh eh.
Si chiama tutee.

Esiste un bug che si chiama white screen of death. In pratica, tu ci hai un blog, entri nell’amministrazione col tuo username e la tua bella password, e lì trovi il nulla. Cioè, io trovavo a lato la serie di opzioni e di funzioni, ma a cliccarci sopra non succedeva nulla: il resto dello schermo restava, appunto, bianco. Ma se hai una nipote geniale, esperta di informatica e al nono mese di gravidanza (così che non possa fuggire da nessuna parte, grazie Caterina :)), la sventurata può farti la diagnosi, il backup, l’aggiornamento all’ultima versione di Wp e restituirti il blog spolverato, lindo e funzionante come non mai, ed è subito, ancora e sempre, 2003!

LA TERZA DOLORE E SPAVENTO

Alla riga 5, la mia bisnonna Elisabetta, 33 anni.
Alla riga 6 sua figlia Maria, 16 anni.
Alla riga 7 suo figlio. Mio nonno, Vito. Tre anni.
Rosario, il mio bisnonno, stava già a Brucculino e li aspettava.
Non fatico a appiccicare sui visi di chi sbarca a Pozzallo o a Lampedusa quelli di Elisabetta e di Maria, del piccolo Vito.
Anche se in Italia, nel 1903, non c’era guerra. E c’era, bene o male, uno Stato. Ma c’era anche miseria e fame. E allora si partiva. Perché se si ha fame, Cristo, si ha il diritto di partire.
Stipati in 1100 sulla Sicilian Prince, tutti in terza, ché la prima tiene posto solo per venticinque ricchi. Quindici giorni di traversata. Chissà che paura, du fimmine e chidd’avutru, nicareddu nicareddu.

Paura o no, si andava. Si aveva da andare. Dal 1875 al 1913, quasi quattordici milioni. Su trentatrè.
Che strana gente. Che strana specie di gente, ad affrontare l’oceano per una speranza di bene, per il sogno di un di più. Che strana specie, poi, a fare presto ad abituarsi al comodo, e a dimenticare.
Che strana specie che è, la specie umana.

100 ANNI

(100 anni dalla Grande Guerra. Mio nonno, ragazzo del ‘99, combattè una piccola parte della battaglia del solstizio, nel giugno del ‘18. Fu ferito e rimase mutilato e invalido tutta la vita. In qualche modo quell’episodio segnò tutta la sua esistenza e indirettamente quella di tutta la sua famiglia, fino a me, fino a noi. Questo è il suo racconto. Ciao nonno, e grazie.)

LA 17BATTERIA
ALL’AZIONE NEL GIUGNO 1918

Comandata dal capitano Arizio, tre medaglie di argento, tre di bronzo, una d’oro.
Dal gennaio del ’18, reduce dal monte Tomba ove il suo capitano si era guadagnata la massima onorificenza, stava piazzata sul monte Costone. Suo obiettivo principale era la val Cesilla, tirava pure sul Pertica e l’Asolone situati a destra e a sinistra di detta valle.

Il 10 giugno la 17a batteria dovette fornire la pattuglia di segnalazione sul monte Asolone, dando il cambio a quella della 18a; era composta di sei soldati, due caporali – uno dei quali il sottoscritto – ed un sottotenente.
Il turno della pattuglia era di giorni 15, i soldati, uno per volta, montavano di vedetta al piccolo posto avanzato insieme alla vedetta di fanteria e dovevano riferire al caporale di servizio tutta l’attività svolta dal nemico in quel punto durante il periodo della loro vedetta.
I due caporali prestavano servizio a turno di 24 ore per uno, nostro compito, stando in servizio, era quello di dare il cambio alla nostra vedetta ogni due ore, ed il rimanente stare al telefono per comunicare al comando divisionale di artiglieria le eventuali novità e per ricevere da questo o dal comando di gruppo o da quello di batteria, eventuali fonogrammi. Il tenente a sua volta, oltre a vigilare sul buon andamento della pattuglia, doveva, mediante rapporto scritto giornaliero, riferire al comando divisionale di artiglieria tutta l’attività svolta dal nemico in quel settore durante le 24 ore.
Così la sera del 10 Giugno demmo il cambio alla pattuglia della 18abatteria, dei due caporali il primo turno fu assunto dal mio collega, per il vitto fummo agregati ad una compagnia del 239 e fummo alloggiati in una baracca insieme ai soldati di fanteria.

La baracca ove si dormiva era addossata ad un rialzo di terra e distava circa 60 metri dai nostri posti avanzati ed 80 circa dalla prima linea nemica.
Di fianco alla baracca, ad una diecina di metri, vi era una grandiosa galleria a due bocche capace di contenere più di due compagnie di soldati.
Fino al giorno 13 nulla di notevole, la sera del 13 poco dopo che avevo ripreso servizio arriva un fonogramma dal comando divisionale di artiglieria con cui si ordina alla pattuglia di comunicare, per telefono, le novità ogni due ore, la mattina del 14 verso le sei altro fonogramma, dallo stesso comando, in cui si ordina, comunicare le novità ogni ora, a mezzogiorno, sempre del 14, altro fonogramma con l’ordine di comunicare le novità ogni quarto d’ora!
Poco prima di ricevere il cambio dal mio collega, il tenente mi ordina di tenermi pronto per accompagnarlo in un giro alle nostre prime linee. Si partì verso le nove e dopo di esserci spinti fin quasi sul Pertica rientrammo a mezzora dopo mezzanotte.
Quasi sfinito, dopo più di trenta ore di attività, mi buttai sul mio giaciglio col fermo proposito di non rialzarmi se non per riprendere servizio alla sera successiva; e per godermi meglio il mio meritato riposo, mi tolsi le scarpe, le fasce e la giubba.
Però, avevo fatto i conti senza….. gli austriaci, poiché poco dopo si scatenò l’inferno!
Svegliato di soprassalto, fra bagliori sinistri e scoppi infernali, la baracca sottosopra, i soldati che fuggivano in galleria, nella confusione non trovavo più la roba mia!
Finalmente riuscì a raccapezzarla, fo una bracciata di tutto e a piedi nudi scappo anch’io in galleria.
Quivi dopo aver finito di vestirmi mi accorsi di avere dimenticato la maschera, corro di fuori per andarla a prendere ma la baracca non vi era più era sparita insieme alla mia maschera!
Ritorno in galleria, il bombardamento, da parte del nemico, continuava intenzo; le nostre artiglierie rispondevano rabbiosamente.
Verso le tre e mezzo, il bombardamento diminuisce d’intensità sulle nostre prime linee, il nemico adesso batte le nostre seconde e terze linee.
Alle quattro il mio collega va a dare il cambio alla nostra vedetta e non fa più ritorno né lui né la vedetta smontante.
Alle quattro e dieci il capitano, che comandava la compagnia di fanteria, manda un suo tenente ai piccoli posti per avere notizie, anche quest’ufficiale non fa più ritorno; verso le quattro e venti manda un soldato con la stessa missione, non ritorna nemmeno questi!
Alle 4 e 30 il nemico lancia i gas; io essendo sprovvisto di maschera, inzuppo un fazzoletto nel fango e lo porto al viso, fortunatamente vi è vento ed il gas dura pochi minuti.
Adesso il nemico torna a battere in prevalenza sulle nostre prime linee.
A venti minuti circa alle cinque il capitano si rivolge al mio tenente e gli dice:
Tenente, ha un uomo un po svelto da poter mandare ai piccoli posti per sapere cosa avviene?
– Ho un altro caporale, poiché uno è andato alle 4 e non ha fatto più ritorno.
– Ebbene mandi il suo caporale.
Il mio tenente rivolgendosi a me mi ordina di andare. Imbraccio il moschetto e parto, uscendo dalla galleria dovevo percorrere una trentina di metri senza alcun riparo e poi dovevo percorrere circa 60 metri di camminamento per arrivare ai piccoli posti.
Faccio di corsa i primi trenta metri ed imbocco il camminamento, arrivo sulla vetta e proprio dove il terreno declinava verso le linee nemiche ad una quindicina di metri dai nostri piccoli posti il camminamento era ostruito, per passare bisognava scoprirsi completamente, il che era molto azzardato poiché si era in presenza del nemico la cui linea non distava da quel punto più di 30 metri e le cui mitragliatrici si facevano sentire, senza contare il furioso bombardamento che infuriava.
Non mi sentj di affrontare quell’ostacolo e ritornai senza compiere la mia missione.
Riferj al capitano il quale si rese conto della difficoltà da me incontrata e rivolgendosi al mio tenente le dice: questo caporale lo accompagni all’altra bocca della galleria e che mi avverta subito se sente le nostre mitragliatrici dall’altra parte.
Stavamo per avviarci quando il mio tenente mi fa: Mucaria, eri quasi arrivato, potevi tentare! Al che io rispondo: signor tenente l’impresa non è facile, se vuole tento di nuovo!
Il capitano che aveva assistito al dialogo, in tono più di preghiera che di comando mi dice: va, e portami notizie!
Il bombardamento aumentava d’intensità, il nemico concentrava il suo fuoco tutto sulle prime linee.

Parto, poco dopo mi trovavo di nuovo dinanzi il medesimo ostacolo; ma questa volta non potevo più tornare indietro, dovevo superarlo a qualunque costo.
Mi fermo pochi secondi per prender fiato, una stretta di denti, un balzo, un capitombolo e mi trovo dall’altra parte del camminamento. Mi attasto la persona, nulla ero illeso, percorro quegli altri pochi metri, ed arrivo al piccolo posto; vi trovo il tenente ch’era stato inviato dal capitano e pochi soldati, espongo al tenente la mia missione, mi risponde di dire al capitano che lui ben poco aveva potuto muoversi, poiché le nostre trincee erano tutte rotte, le mitragliatrici buttate per aria, nemici non se ne vedevano.
Lo pregai di scrivermi queste notizie sopra un pezzo di carta, il che fece, e mi apprestai a ritornare.
Un altro momento critico a superare in senso inverso il solito maledetto ostacolo e quasi fuori di me raggiungo la galleria!
Il capitano stava sulle spine, poiché le notizie da me recate non erano per nulla rassicuranti, si sporge un po fuori della galleria per osservare verso le prime linee e rientri esclamando: la nostra artiglieria innalza sulle linee nemiche una cortina di fuoco formidabile!!
Pochi minuti dopo, verso le cinque, arriva di corsa un ufficiale gridando: i tedeschi! i tedeschi!!!
Per tutta la galleria si ripete il grido: fuori i tedeschi!! La compagnia si lancia fuori per prendere posizione, in quel momento avviene una cosa terribile! Avviene questo:
avendo le poche vedette superstiti lanciato i razzi gialli, per segnalare alla nostra artiglieria che il nemico varcava le nostre linee, l’artiglieria italiana accorciava il tiro, rovesciando su di noi quella tremenda cortina di fuoco, di cui parlava poco prima il capitano!
La compagnia fu quasi decimata! i superstiti ripararono di nuovo in galleria per risortirne immediatamente dopo, la nostra artiglieria continuava ad accorciare il tiro, i pochi rimasti prendemmo alla meglio posizione, di fianco alla galleria il mio tenente con la rivoltella in pugno gridava: a me i miei artiglieri!
Prendo posizione accanto al mio tenente, adesso eravamo in presenza degli austriaci i quali erano arrivati ad una trentina di metri da noi, ne prendo di mira uno, non posso dire se arrivai a tirare, ricordo solo di averlo preso di mira, poiché in quel preciso istante, mi sentj uno strappo alla guancia sinistra che mi fece stramazzare cosa era avvenuto? questo:
Una pallottola mi aveva attraversato la guancia sinistra facendomi sputare una dozzina di denti; mentre un’altra s’incaricava di spezzarmi una spalla, all’altezza dell’omero sinistro!
Mi rialzo subito facendo forza a me stesso per non perdere i sensi, un portaferiti mi porta in galleria, e sull’imboccatura incomincia a fasciarmi, in quel momento arriva un gruppo di soldati di corsa in galleria, mi mandano per terra e mi passano sopra, dal di fuori lanciano una bomba dentro la galleria e mi viene a cascare sui piedi, i soldati alla vista della bomba scappano verso l’interno, ho la presenza di spirito di aggrapparmi con la mano destra alla giubba di un soldato il quale nella corsa trascina anche me.
La bomba esplode, non fa danno a nessuno solo una scheggia mi taglia il pollice della mano destra.
La galleria si riempie di fumo, per non soffocare esco di fuori e vi trovo due lanciafiamme austriaci i quali appena mi vedono mi fanno cenno di uscir fuori dicendomi: medicazion, medicazion e m’indicavano in direzione della val Cesilla.
Capj che in fondo alla valle vi dovesse essere un posto di medicazione e m’incamminai verso quella direzione.
Tutti gli austriaci che incontravo mi ripetevano la stessa parola – medicazion – e m’indicavano sempre la val Cesilla.
Avevo percorso circa trecento metri quando mi trovai di fronte un’improvviso ostacolo consistente in quattro fili di filo spinato sovrapposti, di scavalcarli non avevo più la forza, poiché ero arrivato agli estremi, cercare il passaggio? avrei perduto del tempo prezioso e più del tempo del sangue poiché le mie ferite non potevo tamponarle. Decisi di passare carponi tra un filo e l’altro e così feci, però arrivato a metà mi si aggrappò la giubba al petto ed alle spalle e rimasi appeso!
Credetti di essere pervenuto alla fine! radunai le poche forze che mi erano rimaste e con la forza più della disperazione che d’altro do una strattonata, la giubba si strappa e così mi liberai ma non potei più muovermi.
Poco dopo passa un gruppo di prigionieri italiani fra i quali riconosco un mio compagno di pattuglia – certo Giuliani, barese – al quale gli fo cenni, dato che per via della ferita alla bocca non potevo più articolar parola, li per li, non mi riconosce, dopo guardandomi meglio esclama: Mucaria? gli fo cenno di sì, allora mi prende in spalla e mi conduce giù.
Poco dopo incontrammo due portaferiti austriaci, i quali stavano riparati dentro un fosso, questi mi presero, mi fasciarono alla meglio e mi portarono al posto di medicazione ove mi rifasciarono un’altra volta.
Verso le due arrivarono le barelle ci adagiarono sopra e portati da prigionieri italiani s’incomincia la discesa verso Grigno.
La strada era un via vai, di rincalzi austriaci che venivano su e di carovane di feriti e prigionieri che andavano in giù.
L’artiglieria italiana batteva fortemente la valle e quale fu la mia contentezza nel notare fra i colpi che arrivavano, dei shrapnel da 65!
Non poteva essere che lei! la 17a! che a mezzo dei suoi shrapnel m’inviava il suo saluto, dandomi buone notizie di sé, poiché quei shrapnel mi dicevano chiaramente, che la 17a batteria era ancora al suo posto! non solo; ma che non correva nessun pericolo, dato che si dedicava a contrastare, a distanza, la strada ai rincalzi nemici.
Rimpatriato dalla prigionia a mezzo di un mio compagno, certo Giovanni Perrone da Calatafimi, che il 15 giugno trovavasi in batteria seppi: che la mattina verso le 10 gli austriaci raggiunsero il Costone, arrivando fin quasi sulla batteria, il capitano fu ferito; ma rimase al suo posto, gli artiglieri dopo aver tirato con gli alzi a zero avevan dovuto difendere i pezzi coi moschetti e le bombe a mano e dal Costone – mercé il furioso contrattacco della nostra fanteria – in poche ore il nemico era stato ributtato sulle sue posizioni di partenza!

Mucaria Vito

Tornitore meccanico

Mutilato di guerra, ex artigliere della 17a batteria del 2Reggto Artiglada Montagna

Via Agostino Bertani N 8 Trastevere Roma

TRACCE DI PIACENZA/15

(NdR: in quell’avvenimento epocale che fu la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494, la tappa piacentina fu in qualche modo decisiva. Fu proprio durante il soggiorno piacentino, infatti, che il re dovette mutare le proprie intenzioni, e rinunciare così a percorrere la via Emilia fino in Romagna per puntare direttamente su Firenze. Con tutto il casino che ne derivò)

Partitosi il re da Pavia, giunse in Piacenza dove Ludovico avuto novelle che il Duca di Milano suo nipote si moriva, prese commiato per andarvi. Pregollo il Re che ritornasse tosto, e egli così gli promise.
Ma prima, che giungesse a Pavia, morì il Duca, e Ludovico volando andò a Milano. Io lo seppi per le lettere dell’Ambasciatore Veneziano, ch’era con esso lui, il quale lo scriveva alla sua Repubblica; avvisandola, che egli si voleva far Duca, cosa sommamente odiosa a quella Signoria, la quale mi dimandò se il Re prenderia la protezione del fanciullo e avvenga che, ciò fosse molto ragionevole, io il posi in dubbio, atteso il bisogno, che il Re aveva del Sig. Ludovico.
In breve, egli si fece ricevere per Signore: e questo fu il fine (come molti dicevano) per lo quale ci aveva fatti passar i monti, imputandolo della morte del nipote, i parenti, e amici del quale s’erano messi in arme, e venuti in Romagna, (come io dissi) per torr’il governo a Ludovico, e agevolmente saria loro succeduto, se il Re non fusse stato in Italia. Ma avendo eglino incontra il conte di Caiazzo con gli Italiani, e Monsignor d’Aubigni con ducento uomini d’arme Francesi, e un numero di Svizzeri, Don Ferdinando fu costretto a ritirarsi verso Forlì, di che n’era Signora una bastarda de gli Sforza di Milano, vedova del Conte Girolamo, che fu nipote di Papa Sisto IV. Dicevasi costei essere amica d’Aragonesi, ma avendone i nostri preso d’assalto una sua piccola terra, battuta solamente due giorni, essa Signora s’accostò volentieri a noi, mostrandoci grande inclinazione. Cominciarono allora i popoli d’Italia, desiderosi di novità, a prender animo, vedendo cosa non più veduta a lor tempi, e questo era il condurre, e maneggiare con tanta facilità grandissimo numero d’artiglieria, il cui esercito non era mai per l’adietro stato così ben inteso nella Francia, come allora. Ferdinando avvicinandosi al regno si ridusse a Cesena, buona città della Chiesa, nella marca d’Ancona; ma avendo questa sua ritirata più sembiante di fuga, che di altro, ciascuno dunque trovava in disparte i somieri, e le bagaglie, senza alcuno rispetto, le saccheggiavano. Ne v’ha dubbio che si sarebbono quasi tutti ribellati, se i nostri, lasciando le ruberie, e le violenze, si fussero partiti moderatamente, e con buon ordine, ma facevano tutto in contrario; di che io n’ebbi grandissimo dispiacere, per la gloria, e fama, che si poteva acquistare in quel viaggio la nazione Francese. Conciosia che dal principio i popoli ci riverivano al pari d’uomini Santi; dandosi a credere ch’in noi fusse ogni fede, e bontà; ma cotal opinione non durò lor gran fatto, si per nostra propria colpa, come anco perché i nemici pubblicavano in ogni contrada noi essere pessima generazione di gente, la quale da per tutto rubava le donne, i denari, e i beni altrui. E nel vero non ci poteva essere attribuita maggiore infamia, e dicevano in parte la verità.
Lasciai il re a Piacenza, dove egli fece fare solenni esequie al Duca di Milano suo cugino germano; e io mi credo che egli non avesse guari altro, che farsi, atteso che Ludovico novello Duca di Milano s’era partito da lui. M’hanno detto alcuni (che lo dovevano saper molto bene) che i nostri temendo, e non sapendo ben di che, furono presso a ritornarsi indietro, massimamente vedendosi sprovveduti da tutte le cose. Oltrache molti, che lodarono già quel viaggio, al presente lo biasimavano, come fece per sue lettere, il Signor d’Urfè gran Scudiero, il quale essendo restato in Genova ammalato, pose il Re in gran sospetto, di cosa, di che diceva essere stato avvertito, ma (come altrove ho detto) Iddio mostrava di essere, quello, che conduceva l’impresa. In quella alterazione di mente ebbe novella il Re, che il Duca di Milano ritornava in campo, e che le cose di Firenze erano in moto, per le inimicizie, e invidia, che Pietro de’ Medici s’aveva tirata addosso, vivendo non alla Cittadinesca, ma come se stato fusse prencipe assoluto di quella Città; onde molto onorevoli famiglie, Capponi, Soderini, Nerli, e altre assai, le quali non potevano tollerare tanto fasto, e ambizione, diedero occasione a Pietro di partirsi da Firenze. Andossene diritto ad alcune terre deboli dello Stato, per farle sue, e potervisi ridurre nella vernata, la quale già era incominciata. Alcune delle quali si dichiararono a suo favore (come anco fece Lucca, nemica del nome Fiorentino) le quali tutte diedero al Re ogni comodità, e servizio. Il Duca di Milano ebbe sempre, mira, e fine di due cose principali, che il Re non passasse più inanzi in quella stagione, e che a lui fussero date Pisa, (Città nobile e grande) Sarzana e Pietrasanta. Le due ultime furono dei Genovesi, poco tempo prima, acquistate in guerra da Fiorentini a tempo di Lorenzo de Medici.
Il re prese la strada per Pontremoli, terra del Ducato di Milano, e andò assediar Sarzana fortissimo castello, e uno de’ migliori, che s’avessero i Fiorentini, ma per le divisioni loro sprovveduto d’ogni cosa…

Philippe de Commynes, Delle Mémorie Di Filippo Di Comines, Cavaliero, & Signore d’Argentone, Intorno alle principali azioni di Lodovico Undicesimo, e di Carlo Ottavo suo figliolo, amendue Re di Francia, Venezia 1640, pp. 237 s.

 

TRACCE DI PIACENZA/14

I negotiatores di Asti e di alcune città vicine  (Alba, Chieri, Cuneo, Torino, Vercelli, ecc.), i quali, – negli ultimi anni del secolo XI – stabilirono legami commerciali con la Francia, furono – intorno al 1200 – i principali intermediari fra Genova e i paesi del Nord, e – nel corso del secolo XIII – mantennero costanti rapporti d’affari con le fiere della Champagne e con altri centri del commercio transalpino. A partire dagli ultimi anni del secolo XII, essi furono seguiti al di là delle Alpi, in Francia, nelle Fiandre, nella Germania meridionale, in Inghilterra, da mercanti di Milano, Piacenza, Bologna e (in minor numero) di Lodi, Cremona, Parma e forse Bergamo e Monza.
Di tutti costoro (in mancanza di notizie più precise su Milano) i più influenti furono i mercatores piacentini, i quali per quasi due secoli (dal principio del secolo XII alla fine del XIII), giovandosi della posizione strategica di Piacenza a cavallo delle grandi vie di comunicazione continentali lungo il Po, attraverso i valichi alpini e al di là degli Appennini fino a Genova, costruirono una vasta rete di scambi internazionali con i paesi dell’Occidente e dell’Oriente, diventando una delle principali potenze commerciali d’Europa. In Occidente essi conquistarono una posizione dominante nel commercio per via di terra fra Genova (e Marsiglia) e la Champagne; stabilirono legami con la Francia, le Fiandre, l’Inghilterra e la Germania; assunsero in certi periodi, verso la fine del secolo XIII, un ruolo di guida nella comunità mercantile italiana alle fiere di Nîmes e della Champagne; in Oriente parteciparono alla prima Crociata, operarono in epoche diverse in Africa, Egitto, Siria, Palestina, Armenia (Laiazzo) e Persia (Tabriz); furono tra gli ultimi italiani ad abbandonare gli Stati crociati per stabilirsi a Cipro (soprattutto gli Scotti, il cui raggio d’azione, nel 1301, andava da Famagosta a Bruges).

Ph. Jones, La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. 4: Dalla caduta dell’Impero Romano al secolo XVIII. L’economia delle tre Italie, Einaudi – Il Sole 24 Ore, 2005, pp. 1719 s.

TRACCE DI PIACENZA/13

Scontri violenti tra gli abitanti di Ravenna (…) si ripetevano ogni domenica. Scontri durissimi, quasi all’ultimo sangue: ci si fermava solo al momento di infliggere il colpo definitivo all’avversario: e anche così i morti non erano infrequenti.
Sorge allora subito spontanea la domanda sull’origine di questo uso. Prima di tutto va detto che durante il Medioevo “giochi” del tipo di quello ravennate erano usuali in quasi tutta l’Italia centrosettentrionale, sia nel periodo più antico sia durante l’età comunale (che anzi mostra un infittirsi delle testimonianze in questo senso per il netto aumento della quantità delle fonti disponibili). Le fonti provano la diffusa partecipazione della popolazione, senza distinzioni di strato sociale, a queste zuffe, che avevano nomi diversi, ma che in genere si chiamavano “battaglia” (pugna, battagliola, bellum) oppure “gioco” (ludus). Nel nome, poi, si faceva talvolta riferimento alle armi come elemento di specificazione (gioco o battaglia con i bastoni, le mazze, le clave, gli scudi e così via). Esse si svolgevano in luoghi aperti, ben individuati, spesso fuori delle mura, ai quali è rimasto il nome di “campo” o “prato di battaglia”.
Nel 1090 a Piacenza i combattimenti si svolgevano in un terreno vuoto, compreso fra una chiesa e una strada; altre prove toponomastiche simili vengono, per esempio, da Modena e da Perugia. In quest’ultimo caso il luogo dello scontro è perfettamente documentato (il ludus battaglie, il gioco della battaglia ben noto fin dal Duecento, continuò fino al Quattrocento inoltrato): si trovava sotto l’attuale piazza Matteotti ed era delimitato da un muro.

S. Gasparri, Giochi di guerra. Gli scontri cruenti tra fazioni cittadine, in Storia e Dossier 55, ottobre 1991, pp. 41 s.

 

TRACCE DI PIACENZA/12

La rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV non fu immediatamente successiva al decreto sulle investiture: solo che il re mostrò di non tenerne conto, inviando in Lombardia uno dei suoi fedeli, il conte Everardo, che, radunata una dieta a Roncaglia, fece eleggere Tedaldo, suddiacono milanese e cappellano del re, nuovo arcivescovo di Milano – nonostante ancora vivesse il candidato della pataria, già approvato dalla sede apostolica –  e investendo negli stessi mesi dei vescovadi di Fermo e Spoleto, rimasti vacanti, due persone a lui fedeli e sconosciute al papa. Si trattava del rafforzamento e dell’estensione anche all’Italia di quella politica ecclesiastica che si connetteva intimamente per Enrico al problema del rafforzamento della compagine del regno. Alle proteste di Gregorio VII e alle minacce di scomunica e di deposizione, Enrico rispose nel gennaio 1076 con le assemblee di Worms e di Piacenza, dove gli episcopati rispettivamente tedesco e lombardo decretarono la deposizione di Gregorio VII. La replica di Gregorio fu nel concilio romano del febbraio la deposizione di Enrico, la sua scomunica e lo scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà.
Iniziava così una rottura che, a parte brevi ed effimeri compromessi, sarebbe durata quasi cinquant’anni, rompendo quel mito della concordia e reciproca collaborazione fra papato e Impero, al quale si richiamavano i teorici di una presunta restaurazione carolingia.

G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 502

TRACCE DI PIACENZA/11

L’idea della presenza di Dio tra i combattenti per la propria città si manifesta talvolta anche nei moduli narrativi usati per salutare i successi della propria parte. Nell’aprile 1175 Federico Barbarossa cerca di conquistare Alessandria, irriducibile al duro assedio, facendo scavare una galleria che passando sotto le mura avrebbe dovuto sboccare nel mezzo della città; aveva dato assicurazione che avrebbe rispettato la Pasqua e invece proprio la mattina della santa domenica egli attaccò battaglia: «Ma Dio combatté per i cittadini, e tutti coloro che si trovavano nella galleria e sulla torre di legno… morirono, e la torre fu bruciata». Nel giugno 1215 gli Annales placentini registrano il fallimento di una spedizione cremonese contro la loro città «divina potentia et civium Placentiae protectione», come nel luglio dello stesso anno un’altra incursione cremonese fallisce «divina misericordia et virtute atque auxilio militum et sagittariorum».

G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 600

 

TRACCE DI PIACENZA/10

Un’altra complicazione, nella lotta di classe del primo Duecento, fu la frequente presenza di nobili nella direzione del movimento di popolo. Ma ciò era avvenuto già nel secolo XI a Milano, al tempo di Lanzone, capitaneus in guerra contro i capitanei, e significava soltanto la necessità per la popolazione non nobile, nel corso della lotta, di scegliere capi dal ceto militarmente più esperto, sfruttandone le discordie interne. Del resto il contrasto fra le fazioni nobiliari, in gara per il predominio politico, non poteva non intrecciarsi con il conflitto di classe: che esprimeva una tensione sociale, ma si poneva anch’esso su un piano schiettamente politico. Ciò anzitutto in quanto l’opposizione alla classe dei nobili era alimentata dall’esigenza di porre un freno alla violenza appunto, con cui le consorterie contendevano per conseguire il potere nell’organismo comunale: basti pensare agli anni di guerriglia, di barricate, di incendi che afflissero Firenze dal 1177 al 1179, quando la consorteria degli Uberti insorse contro la lunga prevalenza della coalizione capeggiata dai Donati. D’altra parte, questa volontà popolare di presenza politica, intesa a costringere i nobili a metodi nuovi nella lotta per il potere, si complicò normalmente con una precisa richiesta di partecipazione effettiva al governo cittadino e di spartizione equilibrata delle cariche comunali, e si tradusse talvolta in una integrale, pur se ancora provvisoria, conquista dell’organismo comunale da parte del popolo: come avvenne a Piacenza nel 1220, quando i milites abbandonarono la città, tornandovi più di un anno dopo per l’intervento pacificatore di un legato papale.

G. Tabacco, La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’impero alle prime formazioni di Stati regionali, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol.1: La società medievale e le corti del Rinascimento, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, pp. 184 s.

TRACCE DI PIACENZA/9

Le attività della commissione insediata a Ravenna sotto la direzione dell’arcivescovo del luogo, Rinaldo da Concorezzo, sono ben note. Istituita nel settembre 1309, essa sovrintende alle inchieste diocesane. Poi, conformemente alle direttive della bolla Faciens misericordiam, è riunito un concilio provinciale; tiene due sessioni, nel gennaio e nel giugno 1311, nel corso delle quali sono esaminati i verbali. I templari di Piacenza, Bologna, Faenza compaiono ancora un’ultima volta. Sono dichiarati innocenti anche dall’inquisitore francescano; solo i due inquisitori domenicani criticano l’arcivescovo e rifiutano la sentenza. Si rivolgono al papa, che ordina all’arcivescovo di riprendere l’inchiesta, rimproverandolo di non aver applicato la tortura. Rinaldo da Concorezzo, che non riconosce la validità delle confessioni ottenute sotto tortura, rifiuta e chiude la vicenda. I suoi colleghi di Pisa e di Firenze non hanno avuto la stessa fermezza e hanno ripreso gli interrogatori ricorrendo alla tortura. A Venezia l’Inquisizione è nelle mani del doge. I templari sono lasciati tranquilli e possono rimanere nella loro casa.

A. Demurger, I templari. Un ordine cavalleresco cristiano nel medioevo, Garzanti 2006, p. 463