Riguardo allo scandalone degli iscritti a Ashley Madison, l’articolo di Piacenza24 dà un’idea della dimensione local dello sputtanamento global, ed è piuttosto interessante. Per dire, a Piacenza risultano 1692 iscritti. A Roma, per fare un confronto, sono 691. La tranquillità della provincia, dicheno. (Che poi, a ben guardare, in realtà è Roma ad essere stranamente virtuosa, o meglio, a organizzare corna e cornetti ancora in modo analogico: una Milano ben più web-friendly di iscritti ne ha 35337) Poi ci sono i particolari, dove, come si sa, ama annidarsi il diavolo. Poche donne su Ashley Madison, si è scoperto. Ma a Rivergaro le donne iscritte erano ben il 30% del totale! …un totale, per la verità di 25 iscritti, ma la percentuale cruda fa nettamente più figo. E poi l’abisso della perdizione: Nibbiano, che dei suoi duemila residenti, bambini e ultranovantenni compresi , ne vede iscritti al sito 145.
I Presidi dei Licei sono nominati dal Re. (Legge Casati, Regio Decreto Legislativo n° 3725, 13 novembre 1859, articolo 230)
Piacenza è dal 1995 la città italiana col maggior numero di testate studentesche. Dice l’articolo sul Corriereche ce ne sono 18 attive ininterrottamente da 30 anni. Si potrà discutere sulla valenza educativa del giornalino d’istituto e sulla qualità delle singole testate e degli articoli pubblicati. So però che i ragazzi che ci lavorano dentro (una ventina per ogni redazione scolastica) ci mettono voglia, passione e tempo, e portano a casa una maggiore confidenza col testo stampato e la strana idea che si possa esprimere quel che si pensa, e, ancor prima, che si debba pensare qualcosa. Ma la cosa straordinaria è quest’uomo, che segue da trent’anni il mondo dei giornali d’istituto piacentini, il prof. Schinardi, splendido settantacinquenne che io ricordo come insegnante di italiano e latino di mio fratello, all’epoca adolescente pseudorivoluzionario da salotto (ehm, ciao Vito) ma letteralmente invaghito di questo strano prof che in un’epoca di alternatività obbligatoria e di conformisti controcorrente riusciva a far amare la letteratura italiana a chi reclamava il sei politico. E adesso che è in pensione è ancora lì che non molla, che coordina, motiva, spinge e organizza. Ce ne fossero, ancora.
Gli obiettivi di apprendimento relativi alla scrittura in lingua italiana al termine della scuola primaria, come elencati dalle Indicazioni per il curricolo – 2007, non sono alla portata di un buon 50% degli utenti dei social network. E sono stato basso.
Paasilinna, Piccoli suicidi fra amici. Ho imparato che per Paasilinna il suicidio è irragionevole, sempre. La vita è cambiamento, mutamento, variare di circostanze. L’attimo che viene può portare con sé occasioni e incontri che rendono meno rilevante quanto è accaduto prima. Perfino tentare il suicidio può rivelarsi fonte di cambiamento ed essere la circostanza attraverso la quale la vita cambia. Il suicidio è un’impennata della volontà, ha senso se hai deciso che sei tu che decidi. Ma è una decisione, appunto. E come per quelli che dicono oh, insomma, io la penso così, mica è detto che se lo pensi, se lo decidi, sia vero. Paasilinna descrive una specie di TripAdvisor dei posti d’Europa dove è più figo suicidarsi, ammesso che lo si voglia fare in massa e in modo spettacolare, tipo lanciandosi nel vuoto dentro un pullman. Il must pare essere Capo Nord. A giudicare dalle foto c’è andato in vacanza mezzo Feisbuc. Coincidenze? Mah. In subordine vanno fortissimo i burroni delle Alpi svizzere, ma anche l’Algarve non è male, in faccia all’Atlantico, alla Fortaleza de Sagres. E poi ho imparato che Il portoghese deriva dal tardo latino, e il sami dal bramito delle renne.
Regio Decreto 1054 del 6 maggio 1923. Un pezzettino di riforma Gentile: si decide che presidi e professori vadano in pensione a 70 anni. L’aspettativa media di vita alla nascita era di 51,1 anni. ‘Na truffa. L’Inps doveva essere miliardario.
Cool as the other side of the pillow. Che bello. È un’espressione che non conoscevo, e mi piace tantissimo. Mette insieme un modo d’essere che mi è lontano mille miglia (non so cosa caspita significhi, davvero, essere cool, ma sono sicuro che non mi riguarda) con un’immagine che invece mi riporta con la memoria a un’epoca in cui manco sapevo che esistesse l’aria condizionata, e la val padana offriva estati sudate e appiccicaticce anche senza bolle africane, e comunque ero in vacanza, e il giorno dopo non c’era scuola, e andavo a dormire tardi, e nel letto mi giravo e rigiravo per il caldo, e mi stupivo del come fosse possibile che il semplice voltare il cuscino dall’altra parte portasse con sé quel dono di frescura, breve ma sufficiente a farmi prendere sonno, e mentre giravo gallone mi chiedevo come fosse possibile che l’altro lato del cuscino fosse sempre un po’ più fresco del zzzzzzzz……
A paragone della riforma Moratti e del lavoro di Bertagna & co., l’elaborazione delle Indicazioni per il Curricolo da parte di Ceruti e tutto il pensiero di Morin mi paiono parecchio banali, di una banalità filosofica ancor prima che pedagogica. Metto le mani avanti: è la mia prima reazione, a caldo. Ma è fortissima l’impressione di un voler correre dietro alle mode globaliste dell’epoca (2006-07) e ad un certo volemosebbenismo piuttosto diffuso nella ex sinistra Dc e nella Margherita del ministro Fioroni, ma anche a tutta l’area dell’Ulivo e alla sinistra bertinottiana che poi finirà in Sel. Trovo debolissima l’insistenza di Morin sulla “frammentazione del sapere” come male per eccellenza (e in particolare, come ti puoi sbagliare, il male starebbe nell’iperspecializzazione del sapere scientifico), e trovo a dir poco semplicistica la proposta, come rimedio, di ricostruire una visione globale della conoscenza che in fondo sarebbe un semplice rimettere insieme i cocci del sapere che s’è rotto, in un’operazione che, nel mentre che opera di Attak, evidenzia e lascia sussistere la separazione avvenuta – proprio come sul vaso rappezzato si vedono benissimo le crepe e le sbavature di colla – , e allora perché ostinarsi a biasimarla? Il giochino della cultura è da mo che s’è rotto, caro Morin, fattene una ragione. Indaghiamo semmai sulle ragioni e su quel che ne è venuto fuori, ma indietro non si torna, mai. In sovrappiù, non sapevo che l’espressione Nuovo Umanesimo fosse appunto del Morin. Tendevo ad attribuirla a Fissore, unico vero maître à penser di questi nostri tempi bui.
Mentre i nostri musei vengono affidati a mani straniere, il padovano Piero Benvenuti viene eletto segretario dell’IAU, l’Unione Astronomica Internazionale, l’organizzazione che, come dice il Corrieronenostro, dà i nomi alle stelle. Ma – e questo l’ho imparato oggi – dice Benvenuti che non ci sono più stelle da nominare. Che al massimo ci sono gli asteroidi e, come ovvio, i pianeti extrasolari, qualche satellite non ancora avvistato e certo la miriade di oggetti ghiacciati delle varie fasce e nubi che si estendono al di là di Plutone, lo sterminato Molise del sistema solare. Ma stelle no, le abbiamo nominate tutte. Ecco, questa è una cosa che mi lascia senza parole. Nominare le stelle era attributo divino: Prova a contare le stelle del cielo, Abramo, e tale sarà la tua discendenza. E quando Giobbe prova ad alzare la cresta, il Signore lo mette a posto dicendogli: Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Insomma, intorno al nominare le stelle ruota l’immenso Stacce! dell’Onnipotente rivolto alla sicumera dell’ambizione umana alla conoscenza. E invece, abbiamo davvero nominato le stelle. E quindi? Leopardi se lo chiede, se per caso il nominar le stelle, indice di potenza umana sovrumana, potrebbe significare di per sé essere più felici:
Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna.
Oggi, noi che abbiamo noverato le stelle e che le abbiamo battezzate tutte, possiamo rispondere tranquillamente al dubbio del pastore errante. … pastore, magna pure tranquillo.
Bertagna. Non è propriamente un Carneade, almeno in ambito scolastico. Ma per tutto il resto del mondo: chi caspita è Giuseppe Bertagna?! Giuseppe Bertagna è quel povero Cristo che si è trovato a presiedere il gruppo di lavoro incaricato di stendere le basi pedagogiche e culturali della Riforma Moratti. Ah, bella roba!, mi pare di sentirvi. Eppure, eppure. Oggi ho imparato qualcosa che sapevo confusamente, che mi ronzava per il cervello, ma che se non mi capita, come è capitato oggi, di doverci perder su qualche mezzorata di lavoro non si traduce mai in una consapevolezza piena. E così, prima lo pensavo, ma adesso ce lo so. Oggi ho imparato che, per dirla in linguaggio strettamente tecnico-pedagogico: la riforma Moratti era una figata. Spaccava il culo ai passeri. Riforma Moratti rulez. C’era, nella riforma Moratti, una sapienza e una capacità di armonizzare cultura pedagogica e filosofica, concezione della persona e innovazione didattica, astrattezza teorica e concretezza educativa, recupero della tradizione e visione rivoluzionaria davvero uniche nella storia della scuola italiana. Un’operazione culturale di altissimo livello, della quale Bertagna teneva le fila. Una riforma di razionalità stringente, direi elegante: ridotta all’osso, si tratta di un procedimento in cui l’ideale (il PECUP, il profilo dello studente in uscita) si traduce nella realtà dell’individuazione delle competenze di cui lo studente dev’essere fornito; e queste competenze diventano così gli obiettivi del mio insegnamento, che metto in atto a partire dalla definizione dei singoli obiettivi di apprendimento, espressi in termini di conoscenze e abilità, che mi devono aiutare a costruire quelle competenze, obiettivi che perciò diventano il fine cui tendo progettando le mie lezioni. C’è il tener conto di quel che lo studente è e di quel che deve essere; il tener conto delle capacità che la natura e il suo sviluppo gli forniscono e delle competenze di cui dev’essere in possesso per affrontare autonomamente la vita; e all’incrocio tra questo essere e questo dover essere ci sono io, l’insegnante, l’attività culturale della scuola. Non c’è più un sapere fisso, calato dall’alto, che io professore ti trasmetto perché sì, perché qualcuno ha deciso che questo sapere ha valore, e ne ha più di quanto valga io o di quanto valga tu, studente; no, adesso ci sei tu, studente, e io, insegnante. Lo scopo è la realizzazione di te. E il sapere che voglio aiutarti ad apprendere dev’essere strumentale a quel che tu sei, al progetto che tu stesso costruisci su di te attraverso il sapere. Perciò non c’è più un programma, ma delle indicazioni: una direzione, che però sta a me e a te tradurre in strada. Nella riforma Moratti, Comenio e Rousseau vengono alle mani, e Comenio le prende di santa ragione. Peccato. Perché c’è come un gap triste tra il modo in cui questa riforma è stata concepita, il valore pedagogico e culturale del lavoro di elaborazione che l’ha preceduta, lo sforzo di pensiero che l’ha preparata, e quel che invece è stato fatto passare a tutti noi, operatori dell’istruzione e destinatari, utenti o anche solo semplici cittadini dello Stato italiano. Non vi fu nessun coinvolgimento degli insegnanti, non dico come soggetti di elaborazione (mica balle, non ne abbiano le competenze, quand’anche insegnassimo da ventordici anni), ma anche solo, banalmente, come operai destinati a far funzionare quell’edificio: ben poco si è investito, insomma, sulla formazione degli insegnanti, sul nostro essere davvero consapevoli delle ragioni di quel che ci veniva chiesto di fare, della sua valenza culturale ancor prima che organizzativa o gestionale. In questo lo Stato ha sicuramente fallito, per motivi ideologici, economici, pratici e quant’altro. Ma noi insegnanti siamo stati corresponsabili. Ci siamo subito accodati a omogeneizzare la riforma al generale contesto di tifo da stadio fra le opposte tifoserie di berlusconiani e antiberlusconiani; ci siamo spaccati dal ridere sulle tre I come se davvero fossero state il centro della riforma; ci siamo abbeverati agli allarmismi dei sindacati (oh, anche allora era stata uccisa la scuola pubblica, mica solo oggi, altro che walking dead, ‘sta scuola pubblica continuiamo ad ammazzarla e a tirarla su since 1923, e tutte le volte, di fronte a una nuova riforma, ci troviamo a difendere a spada tratta quello che fino a dieci minuti prima definivamo un cadavere); dai sindacati abbiamo accettato di buon grado la tranquillizzante tutela dei diritti acquisiti di chi era nelle graduatorie ad esaurimento ed il sistematico sabotaggio delle SSIS, alcune certo capaci di sabotarsi da sole, ma altre, in quegli anni, capaci di porsi come unico tentativo credibile di dare una reale formazione agli insegnanti, di renderli consapevoli del loro lavoro, di far loro sollevare lo sguardo dal programma, dal libro di testo e dalla lezione. Dietro la riforma Moratti c’era un lavoro culturale enorme, di cui chi non è addetto ai lavori non conosce che una minima parte. Un po’ perché quasi nessuno si è interessato di farci vedere di più, per calcolo, per necessità, perché non ci sono i soldi per l’aggiornamento e la formazione, per spocchia, per stupidità; un po’ perché, ammettiamolo, di pedagogia e didattica gliene frega niente a nessuno, in primis agli insegnanti, figurarsi al pubblico di tv e giornali, e per il resto del mondo la scuola è quella roba che serve a dare un diploma a mio figlio e bon basta; ma un po’ anche perché siamo stati noi insegnanti a non aver voluto e a non voler vedere di più, perché in fondo in fondo molti di noi sono tuttora convinti che il nostro lavoro sia quel qualcosa che accade in aula dalle 8.00 alle 8.55 tra noi, il nostro testo e quei baluba che abbiamo davanti, e una volta che è suonata la campanella tana liberi tutti. Non dite balle, li conoscete, ce n’è ancora un botto che la vedono così. Gli stessi che poi strepitano se qualcuno dice loro che lavoriamo solo diciotto ore la settimana.
È così. Arrivi a cinquant’anni, ti credi esperto del mondo e de li vizi umani e del valore, e invece. Chissà quanti tizi non ho mai sentito nominare ma, ciascuno nel suo, hanno contribuito al progresso umano ben più di quanto potrò mai fare io portando in giro per il mondo la mia massa grassa. Von Foerster, per esempio. (– Cioè, NON SAPEVI CHI ERA VON FOERSTER?! Ma co… – SCOIATTOLO!) Von Foerster, dicevo. Bella questa cosa delle macchine banali e non banali. Una macchina è banale, dice il Von, se è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra input e output. Se, dato uno stimolo A, produce sempre la risposta B. Se fa sempre la stessa cosa, insomma. Schiaccio il pulsante, e vien fuori l’aria calda. Giro la chiave, e si accende il motore. Metto la panna nella carbonara, scoppia un flame su internet. Posto un gattyno, prendo trenta Like. È un sistema deterministico, e quindi prevedibile. Ma ci sono anche le macchine non banali: tra input e output la relazione è diversa. Dato lo stimolo A, non sempre rispondono B. Il fatto è che la risposta che viene data è frutto delle risposte date in precedenza. Anche queste macchine sono deterministiche: è una serie di stati interni a causarne il comportamento. Ma dato che io posso vedere solo l’input e l’output, posso ipotizzare gli stati interni solo da quanto osservo dall’esterno. E così le macchine non banali sono imprevedibili. E poco utili nella pratica, ovvio. Sono anni che schiaccio il pulsante e vien fuori aria calda, ma può essere che stamattina io schiacci il pulsante e venga fuori aria fredda, o non venga fuori niente: a quel punto è improbabile che mi limiti a constatare Toh!, ma guarda che caso strano, il mio phon si è trasformato in una macchina non banale. Dirò che si è rotto, e lo aggiusterò o lo sostituirò. In pratica: se una macchina banale comincia a funzionare in modo non banale, corriamo subito ai ripari per banalizzarla. Tutto il rapporto uomo-natura è in fondo improntato a un costante tentativo di banalizzazione: la natura di suo non è per niente prevedibile, anzi è piuttosto caotica; ma l’uomo è capace di estrapolarne delle regolarità, ovvero di banalizzarla, traendone vantaggio (non è che occorra conoscere tutti gli stati interni della macchina biologica per inventare l’agricoltura e l’allevamento). Ma se c’è un campo in cui, dice il Von Foerster, quest’opera di banalizzazione è nociva, quello è il campo dell’istruzione: la scuola è un costrutto mirato a banalizzare quelle macchine non banali che sono i bambini, o in generale i ggiovani. La risposta di un bambino è sempre imprevedibile: la scuola opera perché alla domanda dell’insegnante il bambino fornisca la risposta corretta, ossia quella attesa, prevista e prevedibile. A stimolo A deve corrispondere risposta B, appunto. I test di valutazione sono la macchina di banalizzazione perfetta: sottopongono domande di cui si conosce già la risposta a persone da cui si attende la risposta corretta. Più alto è il punteggio che ottieni in un test, e più ti sei banalizzato. Ossia, digiamolo, sei sotto controllo. Ora basta, che devo andare a esercitarmi a fare un po’ di test per la preselezione del concOH WAIT!
Il mio, personalissimo WTF?! del giorno consiste nella scoperta del fatto che non è necessario che le scuole paritarie abbiano, propriamente, un dirigente scolastico. Un preside, per capirci. Proprio così. Innanzitutto si parla non di dirigente scolastico, ma di coordinatore didattico. E l’impressione è che la legislazione, nel susseguirsi di circolari e note esplicative dal 2000 in poi, si sia fatta sempre più nebulosa e imprecisa, fino a delineare una situazione in cui non solo non è assolutamente necessario che alla guida di una scuola paritaria vi sia un dirigente scolastico, ovvero qualcuno che abbia passato un concorso per dirigenti; ma non è nemmeno strettamente necessario che vi sia un insegnante munito di abilitazione! (E qui il mio WTF?! raggiunge proporzioni mastodontiche, oserei dire siffrediche). Le varie circolari in fondo si limitano a dire che il coordinatore didattico: a) nelle scuole secondarie inferiori e superiori, deve essere provvisto di laurea o di titolo equipollente (abilitazione all’insegnamento: non pervenuta); b) deve avere titoli culturali o professionali non inferiori a quelli previsti per il personale docente (ancora una volta, l’abilitazione non viene espressamente nominata; ma – si dirà – c’è un riferimento esplicito ai “titoli professionali” del docente, no? Vero, ma la vedi quella “o” ? Ah, la diabolicità di quella “o”…); c) deve essere munito di esperienza e competenza didattico-pedagogica adeguata (e qui cascherebbe l’asino; peccato che misuratori di competenza pedagogico-didattica non ne abbiano ancora inventati); d) e comunque abbiamo anche una nota ministeriale che recita testualmente: Precisato che l’espressione “dirigente scolastico”, propria delle scuole statali e conseguente al relativo ordinamento del personale, non determina alcun obbligo di equiparazione nelle scuole paritarie… E quindi. Per carità, una logica c’è: le scuole paritarie hanno come principale referente non tanto il preside, ma il cosiddetto gestore. Per intenderci: stiamo parlando dell’ente ecclesiastico, o della Fondazione, o della famiglia di privati che possiede e gestisce l’istituto. È il gestore ad essere il garante dell’identità culturale e del progetto educativo della scuola, ed è l’unico ad essere ultimamente responsabile della conduzione dell’istituzione scolastica nei confronti dell’Amministrazione e degli utenti. Tuttavia, nel momento in cui le condizioni per il riconoscimento della parità, che per carità non vi sto ad elencare, prevedono nei fatti che l’istituto paritario funzioni in un modo del tutto identico a quello della tradizionale scuola cosiddetta “pubblica” – dagli organi collegiali al Pof, dalle attività di programmazione all’autonomia scolastica, dai millemila progetti alla gestioni minuta e quotidiana delle questioni burocratico-amministrative, dalla gestione dei rapporti coi docenti e con le famiglie all’attenzione alla qualità della didattica -, non si vede come sia possibile per chi non abbia, non dico una qualifica dirigenziale, ma almeno un’abilitazione all’insegnamento ed un minimo – un minimo! – di esperienza scolastica star dietro a tutto questo senza essere un mero pupazzo di gomma. E insomma, boh.
Il grande rottamatore. È il modo in cui Paasilinna, in Piccoli suicidi fra amici, si riferisce a Dio. Unite i puntini e fate voi le battute su Renzi, il renzismo e il parallelo col berlusconismo dell’Unto del Signore, che qui non possiamo pensare a tutto noi.
E già che ci siamo (ma qui non so se è una cosa che ho imparato oggi o un ricordo che viene a galla tra le nebbie dell’Alzheimer incipiente, come si scherzava nei commenti qualche giorno fa, e comunque scusate l’ignoranza politica): la prima Leopolda, quella del 2010, porcoggiuda, ma da chi fu organizzata? Sì, da Renzi, certo, ma insieme a chi? Ricordo che c’era un altro. Civati? Possibile?!
In caso di mobbing, l’onere della prova ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro spetta al lavoratore. Uhm.
Per Gardner l’intelligenza è multipla, ed è un’abilità: più precisamente, un’abilità con cui risolvere un problema o con cui realizzare un prodotto che ha valore in uno o più contesti culturali. Quest’ultima sottolineatura è bellissima. Essere in grado di trovare l’acqua nel deserto del Kalahari è un’abilità che nel boscimano denota una spiccata intelligenza. Da noi, i 67.000 followers di Gasparri su Twitter o le 100 milioni e rotti di visualizzazioni del Pulcino Pio su YouTube, denotano un’intelligenza spiccata in Gasparri e nell’autore del Pulcino Pio. Stacce. Se non ti piace, è inutile che te la prenda con me, con Gasparri o col Pulcino Pio: se problema c’è, sta in quel che il nostro contesto culturale considera valore.
Se stai pedalando in salita (e hai cinquant’anni, e non sei mica lì a fare del professionismo, ma sudi e ansimi perché in qualche modo fare esercizio ti fa bene e comunque andare in bici ti piace un sacco), a comandare sono le gambe, il ritmo cardiaco e l’ossigenazione, non l’orgoglio. Se gambe cuore e polmoni dicono Cazzo, fermati!, tu ti fermi, punto. Poi magari riprendi. Che gambe cuore e polmoni hanno sempre ragione, l’orgoglio produce solo un mucchio di telefonate al 118 che si sarebbero potute evitare facilmente.
Forse ho capito la differenza fra rating e ranking, in riferimento alle scuole e ai loro risultati (qualunque cosa siano i risultati di una scuola): il ranking dovrebbe essere una graduatoria discreta nella quale ciascuna scuola occupa un posto, laddove il rating mi pare essere l’inserimento della stessa scuola in una fascia di valutazione di ampiezza convenzionale. Non chiedetemi di più, non obiettate, non contestate, è una distinzione che funziona quando rispondo ai test ministeriali e tanto mi basta, almeno per ora.
Ho finalmente trovato un Cinque Stelle che mi sta piuttosto simpatico MA, COM’È COME NON È, ORA NON C’È PIÙ!
I pompieri che stendono i panni in shorts sul balcone, qui, davanti alle finestre della mia cucina, appartengono ad un’altra specie, non umana.
Il cantante dei Joy Division s’è ammazzato prima dell’uscita del loro secondo e ultimo disco. Sì, è una cosa del 1980, e io la scopro ora, e allora? Eh, oh.
È inutile che Caprotti abbia fatto mettere un gabinetto in ogni negozio Esselunga. Qualcuno riesce comunque a vomitare a dieci metri scarsi di distanza dalle porte del cesso, proprio davanti ai due portelli automatici per l’ingresso dei clienti.
C’è questo articolo, no?, il 50 della Legge 35 del 4 aprile 2012 (che converte in legge il DL 5 del 2012), che prevede la costituzione di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, occhei? Bene. L’idea è bellissima: più scuole si mettono assieme e si uniscono per gestire in maniera ottimale le proprie risorse, umane, strumentali e finanziarie. Ne deriva la possibilità di definire un organico di rete: i docenti, invece di essere assegnati ad un unico istituto, sono assegnati a tutti gli istituti che compongono la rete, in funzione dei progetti ai quali partecipano e che vengono condivisi fra le scuole, soprattutto per le questioni legate all’integrazione scolastica ed all’inclusione. Figata!, bene. Ma quel cretino d’un articolo alla fine dice: tutto ciò, nei limiti previsti dall’art. 64 del DL 112/25 giugno 2008, convertito, con modificazioni, dalla L 133/6 agosto 2008, e successive modificazioni. Tradotto: nei limiti fissati dalla Riforma Gelmini, che ha come ritornello la “riduzione complessiva degli organici del tot %”. Ma vaffa, va’.
Un americano può chiederti l’amicizia su Feisbuc perché gli è piaciuto un casino un filmato in cui un tizio suona Comfortably Numb su un iPhone, e visto che ‘sto tizio si chiama Leonardo Muccari lui pensa bene di chiedere l’amicizia a tutti quelli che hanno un nome simile per cercare il tizio e fargli tanti tanti complimenti. Occheione.
(Mi sa che ne faccio una rubrica quotidiana. Che è bello, a mezzo secolo, scoprire che ogni giorno ne impari una nuova. E quindi)
COSE CHE HO IMPARATO OGGI
Vygotskij appartiene a quella serie di genî che, ‘tacci loro, crepano troppo presto (38 anni, ma dai!). La sua teoria della zona dello sviluppo prossimale è una delle cose allo stesso tempo più semplici e rivoluzionarie che la storia della pedagogia abbia mai affermato.
Dicheno che a non far dire le parolacce agli studenti, e a sorvegliare il loro linguaggio, e a invitarli ad usare espressioni formalmente corrette, il loro rendimento migliora. Dovrò cambiare completamente metodo e approccio, cazz… ehm, mannaggia.
Sono troppo grezzo e ignorante per apprezzare alcune cosette. Per dire, le Kantaten di Bach mi paiono tutte uguali e in fondo in fondo madò che rottura di palle.
La vita in fondo è semplice. C’è chi per essere contento gli basta solo che qualcuno metta un like sotto la sua foto di un limone.
Prima di dire che un ragazzo che evidenzia certi problemi ha un Dsa, l’insegnante deve attivare un percorso di recupero sistematico e mirato ai bisogni di quel ragazzo; solo se il percorso fallisce e i problemi continuano a manifestarsi si invita la famiglia a contattare uno specialista. Insomma, pensa te, non si tira a indovinare e non è una questione di “sensibilità”.
C’è gente che non aveva idea di cosa significasse il marcire delle patate in casa. C’è gente che forse ne ha idea o forse non ne ha idea, ma che comunque è stata testimone di esperienze domestiche di decomposizione che neanche i netturbini di Calcutta. E te le racconta, il/la maledetto/a, con dovizia di particolari.
Ciao, ecco, giusto te. Ti volevo dire. Non riesco a mandare mio figlio in parrocchia. Cioè, lui ha un suo gruppetto di amici, giù in paese, ma mi piacerebbe che allargasse un po’ il giro. La scorsa estate è stato anche in vacanza con la parrocchia, gli è pure piaciuto, il parroco gli è simpatico, dice che è un bel tipo (cioè, mio figlio, dice che il parroco è un bel tipo), eppure niente, oh, non ci vuole andare, non mi riesce di mandarcelo. Neanche col ricatto! Che c’ho provato a dirgli “Ma vai una sera all’incontro con gli altri ragazzi, lì in parrocchia, prova, vacci! Se ci vai, bon, se no la sera non ti faccio più uscire.” E lui niente. Dice: “I miei amici me li scelgo io.” Tu che dici?