C’è maretta, in questa quarta. Storie di favoritismi, veri o presunti tali, e di leccaculismo reale o supposto hanno reso i rapporti piuttosto tesi.
A farne le spese, a torto o a ragione non so – e non m’interessa gran che -, è soprattutto una ragazza, più ingenua o più fessa degli altri, che senza curarsi dell’indice di gradimento tende a coltivare il proprio orticello in modo senz’altro lecito ma piuttosto esclusivo, al prezzo di continui scazzi coi compagni.
E allora, all’ennesimo scazzo, il compagno più scafato e più tecnoevoluto sai che fa?
Col cellulare, durante un cambio d’ora registra alcune affermazioni della ragazza, piuttosto pepate e non proprio ortodosse, riguardo ad alcuni insegnanti. Dopodiché le fa riascoltare all’autrice e la minaccia di renderne edotti gli interessati.
Insomma, intercettazione fai-da-te e relativo ricatto in sedicesimo.
Son qui a fare un’ora di sostituzione e perciò chiedo conto del marasma in cui m’imbatto al mio ingresso nell’aula. Così la ragazza, a dir poco alterata, mi mette a conoscenza della situazione tra le risate e i salaci commenti dei compagni.
Non ho avuto una reazione molto equilibrata. Anzi, diciamo che mi sono incazzato di brutto.
I ragazzi sono tutti maggiorenni o al limite dei diciott’anni. E io mi chiedo (al di là della liceità “penale” di un comportamento del genere) quanto di questa bravata sia frutto di stronzaggine congenita e quanto invece sia figlio del recente, martellante riferimento mediatico alle intercettazioni, del quale questi ragazzi hanno colto – e mi ripetono – quel che ritengono essere il succo della questione (dalle intercettazioni si ricava LA VERITÀ!), senza capire un prospero di tutto il contesto di polemiche e argomenti contro o a favore delle intercettazioni.
Alcuni di loro – compreso il bricoleur dell’intercettazione – sono in qualche modo recidivi nell’arte del render pubblico quel che non lo è: già un paio di volte li ho avvertiti e ripresi io stesso, in relazione ad alcuni eleganti post scritti su Facebook in cui (riferendosi alla preside e ad un compagno di classe, entrambi citati con nome e cognome) si producevano in insulti sanguinosi e in prese in giro feroci, del tutto inconsapevoli delle possibili conseguenze. Che allora si palesarono in una denuncia della preside alla polizia postale.
Non so, ho sempre più l’impressione di essere circondato da un branco di minus habentes, ai quali sia stata messa in mano un’arma senza essersi assicurati della presenza del buon senso necessario a discriminare il come e il quando usarla, e soprattutto il se.
Per quel che mi riguarda – dico loro -, da qui fino all’ultimo giorno della quinta in questa classe non tollererò che un cellulare venga tenuto in mano durante le mie ore, acceso o non acceso, smart o dummy che sia non m’interessa. Requisizione, consegna in presidenza, convocazione dei genitori e tutto l’ambaradan del caso, mica balle.
‘Nziamai che mi ritrovi sputtanato per una parola non appropriata, un epiteto poco ortodosso, un filmato in cui mi si veda con l’indice nel naso. Vai a contestualizzare, poi, a latte versato.
Deficienti.
Category: Scuola
LA CUFFIA
La collega lascia ogni giorno guanti, sciarpa e cuffia sui tavoli della sala insegnanti. I guanti poggiati sulla sciarpa, la cuffia poggiata sui guanti, in posizione rovesciata, con l’apertura rivolta verso l’alto. Non so perché, ma è un vezzo che a me piace, e voglio bene anche per questo alla mia collega. Amo l’atmosfera quasi domestica che quei capi d’abbigliamento femminile e la loro apparenza studiatamente negletta donano a quell’ambiente di per sé freddo e poco familiare.
Ma forse ancor di più amo il collega che, tutti i giorni che il buon Dio manda in terra, quando la collega recupera il tutto al termine della mattinata, non manca mai di farle trovare due o tre centesimi nella cuffia, alla quale oggi aveva posto davanti anche il biglietto UN’OFFERTA PER I POVERI GRAZIE.
STUPÈNDA
Gli insegnanti, si sa, sono subdoli e opportunisti.
Io, per esempio, ho bisogno che i miei studenti recuperino il significato e il senso di cose per loro ormai lontane e date per scontate. Cose da niente, come la capacità di stupirsi, di interrogarsi su quel che vedono, di rimanere colpiti da una novità. Non (solo) perché la cosa mi interessi in sé, ma perché è funzionale a comprendere quel che sarà il leit motiv del lavoro di quest’anno.
E allora, in questo primo giorno di scuola dal clima novembrino, ho chiesto ai miei diciassettenni di fermarsi un attimo, di far mente locale e raccontare che cosa, delle ormai trascorse vacanze, li abbia colpiti in particolare. Fatti accaduti, persone incontrate, esperienze vissute che li abbiano stupiti e di cui avvertano tuttora il riverbero.
(E lo so bene che non è tutta ‘sta gran botta di originalità, ma cosa ci volete fare, sono poco creativo e tradizionalista. Ed è il primo giorno anche per me, eh).
Ho avuto quattro risposte. Ve le ripropongo quasi testualmente, così come sono state esposte ai compagni.
Per quanto mi riguarda, vi posso dire che il mio obiettivo è pienamente raggiunto, e che posso cominciare a lavorare tranquillo.
Senza contare che, come insegnante, mi nutro dello stupore altrui quasi come i protagonisti di True Blood fan con l’ematocrito, e perciò mi son sentito subito satollo.
– Ho passato un giorno a L’Aquila. Mi ha fatto impressione. No, non ci sono più le macerie in giro, ma c’è solo questo lungo corso, e tu sei obbligato a percorrerlo senza poter prendere le strade sulla destra e sulla sinistra, ci sono proprio i militari, gli alpini che ti impediscono di passare. È tutto messo in sicurezza, tutto transennato, ma fa impressione, sembra una città fantasma. E fanno impressione le vetrine. Guardi qua, prof, ho scattato le foto e ce le ho qua sul cellulare. Guardi questa vetrina: ci sono ancora le uova di Pasqua. E quest’altra, con l’avviso “Saldi primavera estate 2009”. Il tempo si è fermato.
– A me ha colpito San Vito dei Normanni. Non ero mai stata giù in Puglia, è davvero tutt’un’altra cosa. Il mare, gli ulivi. E la gente. Ti salutano e ti accolgono come se li conoscessi da una vita. I nostri padroni di casa avevano un negozio di alimentari, beh, la sera ci facevano trovare le cose da mangiare senza che le avessimo chieste, così, per gentilezza, poi gliele pagavamo il giorno dopo. Anche se la sera non c’è tanta vita mi è piaciuta molto di più la settimana che ho passato a San Vito che quella che ho passato a Rivabella. O era Bellaria, non ricordo.
– Io sono andato in Romania. Un mio amico studia là, così sono andato a trovarlo. Mica a Bucarest, no, dall’altra parte, boh, finisce in oara. …No, non Timisoara… ah, ecco: Hunedoara! No, non è rumeno: ha provato a iscriversi a medicina a Parma, a Milano e a Pavia, ma non l’hanno preso. Allora si è iscritto là, in Romania. Oh, paga meno che star qua. Beh, sa una cosa? Visti i rumeni che ci sono qua, io mi credevo che là ci fosse un sacco di delinquenza, che non si potesse uscire la sera e robe così. Invece no, sono uguali a noi. Sì, sono più poveri. Hanno anche meno voglia di lavorare, e infatti in giro è pieno di barboni. Ma non si vive male. E niente, io ci avevo un pregiudizio, ma le cose sono molto diverse.
– Mia sorella è andata in Burundi. Si ricorda, prof, quel progetto del Comune, il progetto Kamlalaf? Ecco, quello. Mia sorella si è preparata per un anno, l’hanno presa e ci è andata. È stata via un mese a lavorare in un centro a Bujumbura. Facevano mattoni, pensi un po’, prof! Mi raccontava che lì i bianchi non li vedono mica bene. Per dire, noi diciamo sporco negro, loro dicono sporco bianco. E ai bambini dicono che se fanno i cattivi viene l’uomo bianco e se li porta via. Ma la cosa che più mi ha colpito è mia sorella. È tornata cambiata. È diversa, non è più la stessa di prima. Chissà perché.
PERDONAMI
E niente. Glielo devo, a Giuseppe.
Non so proprio cosa scrivere. Forse la cosa migliore è cominciare dall’inizio. Ci provo.
Non è la prima volta che muore un mio studente. In ventiquattro anni di insegnamento, a botte di circa tre, quattrocento studenti l’anno, non è così improbabile avere a che fare con tragedie del genere.
(Senza contare la morte di colleghi, o la morte dei genitori dei miei allievi. Ma la morte di un ragazzo, beh, è molto più difficile da accettare.)
Negli ultimi anni, per dire, sono morti due miei ex allievi.
Uno al primo anno di università. A un incrocio con la statale 45. Non so se avesse torto o ragione, chissenefrega, fatto sta che bum, c’è rimasto secco sul colpo. Vent’anni, brillante, matricola a ingegneria dei trasporti, se ricordo bene, ma non importa. Quanti dei miei studenti sono rimasti coinvolti in incidenti, quanti ne sono morti? Non so, certo non una moltitudine, ma nemmeno pochi. Gli incidenti, si sa. Càpitano.
L’altro, alle soglie della laurea. La puntura di un’ape, di una vespa, vallo a sapere. Mentre stava andando a casa in motorino, lui che abitava in campagna. Ha fatto a tempo ad arrivare, a togliersi il casco e a dire che stava male. Poi, buio. Shock anafilattico. Che è già diverso da un incidente d’auto, eh. Il fattore sfiga assume dimensioni più mostruose, e tutto cospira per farti bestemmiare come se non ci fosse altro mezzo per dare sfogo al dolore. Ma si sa, son cose che capitano. Raramente, eh, grazie al cielo, ma capitano.
Ma Giuseppe no. È tutta un’altra storia. E non me ne capacito, non mi do pace.
Giuseppe ce l’ho avuto per un solo anno. Ma era l’anno della mia unica supplenza annuale di storia e filo. Così, con la classe di Giuseppe ho trascorso più tempo di quanto non ne trascorra normalmente in cinque anni con le classi in cui insegno religione. A quei ragazzi mi sentivo e mi sento tuttora legato.
Fatto sta che Giuseppe era un mio allievo. Bravo, capace. Timido, mai sopra le righe, ma di compagnia, spiritoso e sveglio.
L’ultimo ricordo che ho di lui è una sua mail che mi ha scritto all’indomani della terza prova d’esame, con una sua battuta e i ringraziamenti per il messaggio di auguri che avevo spedito loro la sera prima.
Giuseppe ha studiato a Pavia e si è laureato in biotecnologie, naturalmente in corso.
Giuseppe ha compiuto ventitre anni il 21 agosto.
E una settimana dopo, la sera, Giuseppe si è buttato sotto a un treno nella stazione di Pavia.
Perché.
Perché, perché. Perché.
Boh.
Io l’ho saputo solo ieri sera. Mentre partecipavo all’asta di un fantacalcio. Perché è giusto che la vita ci prenda per il culo, è giusto così. Me l’ha detto un suo ex compagno di classe.
Era un po’ di tempo che Giuseppe aveva dei disturbi, mi ha raccontato. Niente di grosso, delle amnesie, ma insomma, la cosa lo aveva preoccupato. E ha provato, come è ovvio, a guardarci dentro.
Ma a quel che ho capito, non ha nemmeno aspettato di avere in mano l’esito delle analisi. Ha lasciato un messaggio, credo sul telefonino, e il senso del messaggio era: preferisco aver vissuto pienamente anche solo ventitre anni piuttosto che vivere da larva il tempo che mi rimane.
Il telefonino lo ha abbandonato, o gettato, sulla banchina della stazione di Pavia.
Su Facebook ci sono i messaggi dei suoi amici, come sempre in queste occasioni. Sono tutti improntati a grande tristezza, com’è ovvio, ma anche a grande pace. Sembrano tutti comunque contenti di averlo conosciuto, di avere avuto a che fare con lui (giuro, li capisco, e credo che siano sinceri, ché il ricordo che ho di Giuseppe mi porterebbe a dire le stesse cose).
Poi ci sono i suoi ultimi messaggi. Giuseppe che ringrazia gli amici per la festa di compleanno a sorpresa. Giuseppe che posta il video delle canzoni di un paio di gruppi a me ignoti. Giuseppe che non si ricorda di aver spostato in un’altra cartella i filmati della sua vacanza, e che la trova vuota. Una delle sue amnesie, forse. Fatto sta che ventiquattr’ore dopo si buttava sotto a un treno.
La sorella dice che non lo perdonerà mai. Che questo non glielo doveva fare. Che certo, continuerà a volergli bene, ma non doveva farli soffrire così.
E insomma, tutto il luna park del dolore, tanto scontato quanto inevitabile e vero.
E io non so cosa dire. Al solito mi vien da pensare a un bel po’ di cose, forse banali, ma non so che farci.
Tipo.
Ma porca puttana, con 603 contatti su Facebook, neanche un cane con cui provare a parlare a tu per tu, con cui sfogarti, a cui dire che non ne potevi più?! Perché sempre questa sorpresa, questo dire ma non sembrava, nessuno se l’aspettava?
E davvero non sembrava? Chissà quanti segnali avrai dato, chissà quante parole buttate lì, quanti discorsi appena abbozzati. Chissà quanti momenti in cui sei stato insieme a qualcuno ma senza che nessuno fosse davvero presente, lì, per l’altro. Disposto davvero a guardare l’altro, disposto davvero all’ascolto. Chissà quanto dolore ci passa accanto, anche in chi ci è più vicino, e noi manco ce ne accorgiamo.
E di cosa hai avuto paura, Giuseppe? Non di morire, è evidente. E nemmeno del dolore. Non hai fatto una morte meno dolorosa di quella che (forse!) ti era destinata. E allora, di cosa hai avuto paura?
Ahimè, di vivere. Non mi viene altra risposta. Di vivere a condizioni diverse da quelle che tu volevi porre.
Ne avevi diritto? Sei stato vigliacco? Sei stato coraggioso? Ti sei sentito solo? Abbandonato?
La cosa tremenda è che né io, né nessuna delle persone che tu hai incontrato in ventitre anni è stata in grado di lasciarti qualcosa che, in quel momento, fosse in grado di fermarti, di farti cambiare idea.
È per questo che sono triste. Che scrivo questo post orrendo. Per l’inutilità e lo spreco della tua morte. Per l’inutilità e lo spreco dei rapporti. L’inutilità e lo spreco del tempo, di quel che dico e che faccio.
Perdonami. Perdonaci.
PEZZI/04
No, c’ho mica più voglia, ogni anno che passa ricominciare è sempre più pesante.
Allora sai mica cos’ho pensato? Ho messo in piedi una bella gabola. Ora ti spiego.
Devi sapere che son figlio di agricoli. Quand’ero ragazzo, tutte le volte che ero a casa da scuola, d’estate, davo una mano ai miei a lavorare nei campi. E allora ho fatto richiesta di riscattare i contributi di dodici anni di lavoro come coltivatore diretto, da quando avevo quattordici anni a subito dopo la laurea.
Oh, m’han mica respinto la richiesta?! Dicono che non c’è mica niente che provi che io facevo il coltivatore diretto, che basta mica esser figli di contadini. Stronzi, lo sanno tutti che i figli dei contadini danno una mano nei campi. Ma loro no, vogliono le prove. Che prove?, gli dico. Un qualsiasi documento da cui risulti che lei faceva l’agricoltore, mi dicono.
Bon. Com’è, come non è, mi è venuto in mente che una volta, lavorando nei campi, io m’ero fatto male. M’han portato al pronto soccorso e mi hanno tenuto in osservazione uno o due giorni. Sono andato a recuperare la carta di ricovero, e alla voce professione ci avevano scritto coltivatore diretto!
Ho subito fatto ricorso, e adesso aspetto la risposta.
Capisci? C’ho cinquant’anni, verso seimila l’euro per ciascuno dei dodici anni di contributi, e con settantaduemila euro riesco ad andare in pensione fra quattro anni!
…Smettere di lavorare? Ma sei scemo?! Sapessi quanto lavoro mi tocca rifiutare per questo insegnamento del cavolo! Una volta in pensione faccio l’ingegnere a tempo pieno, e tra la pensione e i soldi in più che mi entrano, i soldi dei contributi li ammortizzo in un niente!
Seeh, smettere di lavorare. A cinquantaquattr’anni, figurati!
I 42 CHE NON TI ASPETTI
A giugno mi sono state conteggiate dieci ore di lavoro extracurricolare da pagare a parte, col fondo d’istituto, per via delle decinaia di progetti e progettini di cui sono referente. Ho detto al segretario Sì, vabbè, già mi pagate per la Funzione strumentale servizi studenti, non stiamo a guardare il capello, facciamo una cosa forfettaria e amen.
Ora il preside mi manda a chiamare, ad agosto, perché vuole che le ore siano documentate nel dettaglio e su apposito modulo, uno per ogni attività svolta, perché – dice – non vuole irregolarità e non si sa mai che qualcuno ci faccia dentro.
Sottolineo “ad agosto” non perché ritenga che sia reato di lesa maestà far muovere il culo a un insegnante nei mesi estivi – ci mancherebbe! -, tanto più che i miei regolamentari giorni di ferie sono scaduti ieri, a ferragosto; ma perché su quelle ore da retribuire io e il preside già concordammo due mesi or sono, e avrebbero già dovuto essermi pagate, loro e le altre che non rientrano in questo capitolo ma che sono sempre fuori orario curricolare. E invece siamo qui a compilare moduli e a rifare conti.
C’ho messo due ore e mezza. Alcune attività le ho tenute fuori e sono stato sullo scarso, ché non mi fanno timbrare il cartellino e non è che tengo conto del minutaggio di tutto quello che faccio a scuola al di fuori delle mie ore di lezione.
Il totale ora è 42, il quadruplo di quel che a giugno avevo già accettato di ricevere.
Non so se è il senso della vita, dell’universo e di tutto quanto, ma qualcosa mi sa che significhi.
SIAMO FATTI COSÌ
La scuola, si sa, è un servizio pubblico: il trend degli ultimi vent’anni è quello di misurarne qualità e efficacia secondo gli standard propri di qualsiasi altro ufficio. Per esempio pare che sia importante, al termine della prestazione d’opera, chiedere alla clientela di esprimere un giudizio sul servizio offerto. E così da qualche anno chiediamo agli allievi delle classi quinte di riempire un questionario sui loro cinque anni di esperienza presso il nostro Istituto. Lo facciamo verso la fine di maggio, e per darci un tono lo chiamiamo Monitoraggio sulla qualità dell’offerta formativa.
Fino all’anno scorso il questionario consisteva in una serie di stimoli preconfezionati. Per esempio, un item diceva qualcosa del tipo: Gli insegnanti sono preparati e hanno un buon rapporto con gli allievi, e lo studente doveva barrare una crocetta lungo una scala graduata da 1 a 10, a seconda di quanto la frase corrispondesse alla propria esperienza. Se barrava in corrispondenza del 10 gli insegnanti risultavano essere dei missionari onniscienti, se barrava sul 4 o anche più a sinistra i professori diventavano degli ignoranti bastardi.
Inutile dire che la maggior parte delle risposte degli studenti finiva per concentrarsi sulla sufficienza risicata. Un po’ perché alcuni item risultavano loro poco chiari e comprensibili, o comunque al di fuori delle esperienze e delle possibilità di verifica della maggior parte di loro (La gestione del budget da parte del Consiglio d’Istituto è stata efficiente e trasparente); un po’ perché, nella mente avveduta dello studente medio, per esprimere giudizi sulla scuola e sugli insegnanti è meglio attendere l’esito dell’esame di Stato…
E così i questionari si sono sempre ridotti ad un noioso lavoro di compilazione e raccolta, buono solo per far perdere un po’ di tempo ai ragazzi durante le ore noiose degli ultimi giorni di scuola e per far perdere qualche minuto agli insegnanti durante le ancor più noiose ore del collegio docenti di giugno.
Ma quest’anno, complice un’atmosfera di precoce smobilitazione legata al simultaneo pensionamento del preside e di un gruppetto di colleghi storici, io e l’insegnante di matematica con la quale son solito condividere la menata abbiamo pensato, tempo perso per tempo perso, di cambiare le carte in tavola e di proporre ai nostri fanciulli qualcosa di meno “scientifico”, ma forse più stimolante. Ci siamo guardati in faccia e nelle nostre menti è scattato il colpo di genio: e se quest’anno – ci siamo detti – invece di presentare ai ragazzi la pappa pronta, gli item già belli e preconfezionati e le scalettine graduate provassimo – che audacia! – a permettere loro di scrivere davvero quello che pensano? Se provassimo a limitarci a chieder loro quattro semplici cose: quali sono secondo voi gli aspetti positivi di questa scuola; quali gli aspetti negativi; in cosa ritenete che la nostra scuola sia migliore delle altre scuole cittadine; in cosa credete che sia peggiore? E poi ci limitassimo a leggere al collegio docenti quello che salta fuori? E così abbiamo fatto.
A chi interessasse, quel che segue è la fedele trascrizione di quel che ne abbiamo ricavato. Errori grammaticali, sintattici e logici compresi.
Aspetti positivi della nostra scuola
- I professori sono disponibili ad aiutare gli studenti
- Gli insegnanti sono molto bravi e comprensivi; non sono severi, tranne qualche volta in cui cercano solo di aiutarci a far capire le cose.
- Con i prof c’è un libero scambio di opinioni
- I docenti ci aiutano umanamente
- I professori sono simpatici e molto diligenti
- Gli insegnanti rispettano le attività sportive/extracurricolari degli studenti
- Quasi tutti gli insegnanti svolgono anche un’attività propria, quindi possono parlarci delle loro esperienze sul campo.
- Il rapporto studente/insegnante è corretto, esigente ma anche umanamente piacevole.
- Nel corso della mia carriera scolastica ho trovato insegnanti preparati, disponibili, e qualche volta sensibili alle nostre esigenze.
- Gli insegnanti aiutano gli alunni anche in caso di problemi fuori dall’ambito scolastico e sono pronti ad ascoltarci e capirci.
- C’è un clima di assoluto benessere
- E’ una scuola tranquilla dove ci si trova bene con tutti
- E’ un ambiente dove si viene volentieri
- E’ una scuola abbastanza tranquilla, nel senso che i ragazzi non hanno la libertà di comportarsi in modo inadeguato.
- C’è possibilità di relazionarsi con tutto il personale scolastico e con gli altri studenti perché siamo in pochi
- In fin dei conti c’è un buon ambiente in cui studiare, con sintonia tra le varie classi e le “mele marce” vengono smaltite.
- Non ci sono pomeriggi
- In città, è comoda e facile da raggiungere
- La scuola ha laboratori di inglese, CAD e disegno efficienti, ed è in una zona facilmente raggiungibile rispetto alla vecchia.
- Siamo in una zona strategica
- Ci sono esperienze internazionali per aiutarci a migliorare in inglese
- C’è la possibilità di progredire nell’uso della Lingua inglese grazie a corsi supplementari e al PET.
- I nostri progetti europei sono molto interessanti
- In segreteria sono generalmente molto disponibili
- Segreteria e staff scolastico molto efficienti
- Il servizio di segreteria è sempre disponibile, se hai bisogno qualcosa
- Un punto a favore sono gli incontri che abbiamo fatto con la Croce Bianca, i Maestri del Lavoro etc .
- Per le classi V sono state organizzate uscite e visite a varie università e Campus
- L’attività sportiva è adeguata, ma alcune attività vengono riservate solo ai maschi
- I tornei d’istituto sono ben organizzati
- Insegnamento di autocad
- Raccolta differenziata nei corridoi
- Nei bagni delle ragazze c’è quasi sempre sapone e carta igienica
Aspetti negativi della nostra scuola
- Le strutture sono troppo deteriorate rispetto all’anno di costruzione
- E’ una scuola costruita un po’ “con i piedi”
- L’edificio pur essendo nuovo presenta molte problematiche: piove dentro, ci sono crepe e muri rovinati
- D’inverno c’è troppo freddo in alcune aule
- Nei periodi in cui piove si verificano infiltrazioni d’acqua dal solaio disturbando sia le lezioni che il passaggio nei corridoi
- L’acustica nelle aule è pessima
- L’ascensore sembra fatto d’oro, che al solo sguardo di un ragazzo sano possa svanire e non esserci più
- Palestra fuori sede
- I servizi che ci offre la scuola, le aule speciali e i laboratori sono poco utilizzati.
- Si dovrebbero fare più ore di AUTOCAD
- Durante le ore di Impianti nel corso del quarto e quinto anno si dovrebbe utilizzare molto di più l’aula CAD
- C’è poca disponibilità delle aule computer
- Alcuni computer durante l’uso di Progecad si rallentano molto o si bloccano del tutto
- Le aule di informatica non sono adeguate, infatti i computer hanno sempre problemi che rallentano il lavoro
- I laboratori di fisica e chimica non vengono utilizzati
- Il laboratorio di chimica non è a norma
- Le aule speciali a disposizione non vengono sfruttate sufficientemente
- Troppo poco lavoro sul campo; in una scuola come la nostra sarebbero necessarie più esperienze di lavoro
- Ci sono poche uscite didattiche sui cantieri
- Poca esercitazione pratica soprattutto per quanto riguarda l’uso degli strumenti
- La parte pratica di Topografia è scarsa
- I professori accompagnano poco lo studente nella realizzazione del progetto per il quinto anno
- Carenza di progetti extrascolastici che aiutino gli studenti all’inserimento nel mondo del lavoro
- Non si fanno abbastanza ore di pratica.
- Se lo stage viene fatto una sola settimana in un anno, è inutile
- Mancanza di serietà nelle assemblee di istituto e di classe
- Le informazioni richieste in segreteria molte volte sono senza risposta
- I professori dovrebbero sanzionare di più gli alunni (punizioni concrete)
- Contenuti piuttosto poveri nei programmi di alcune materie tecniche
- Il metodo delle interrogazioni programmate non aiuta per l’apprendimento di un buon metodo di studio
- Mancanza di progetti finiti già fatti da proporre come modello agli studenti delle V
- Assenza di carta igienica nei bagni
- I bagni sono spesso senza carta e senza salviettine
- Inadeguati gli orari di apertura dei bagni
- Mancanza di altre lingue oltre all’inglese
La nostra scuola è migliore delle altre
- A mio parere prepara al lavoro molto meglio di altre scuole
- Prepara a certi indirizzi universitari (architettura, ingegneria) meglio che i licei
- Dà una formazione adatta sia al lavoro sia all’università
- Facciamo i Progetti Europei
- Usiamo molto il laboratorio di informatica/CAD
- Abbiamo aule innovative e possiamo avere l’ECDL
- Ci dà una preparazione che ci aiuta molto ad entrare nel mondo del lavoro.
- Ci sono più opportunità di lavoro o proseguimento degli studi dopo il diploma
- Manca il latino tra le materie di insegnamento
- Non è pesantissima e la preparazione è buona
- I nostri studi sono basati su qualcosa di concreto e che abbiamo sempre intorno a noi
- Penso che questa sia una scuola che più di tutte le altre prepara al mondo del lavoro
- C’è un miglior rapporto tra professori e studenti
- È migliore l’atmosfera e la gente che frequenta questa scuola
- Tra compagni ci si aiuta sempre
- Essendo in pochi nell’istituto si riesce a seguirci tutti
- Gli insegnanti sono più disponibili
- Il rapporto con gli insegnanti e il personale è ottimo, anche perché essendo in pochi ci conosciamo tutti
- C’è più semplicità e disinvoltura
- La nostra scuola è meglio per modernità e reputazione
- C’è un numero di iscritti ridotto
- Nelle classi c’è un’integrazione pacifica, senza discriminazioni
- Ogni anno si organizzano buone gite e attività extracurricolari
La nostra scuola è peggiore delle altre
- Impossibilità di fare fotocopie urgenti in certi orari
- Mancanza di una propria palestra
- In alcune scuole i rappresentanti d’istituto sono più coinvolti in tutto; gli studenti sono più legati tra loro e organizzano cene e feste d’istituto
- Nelle altre scuole fanno stages più lunghi e più frequenti
- Scarsità di denaro (non si comprano neanche le tovagliette per asciugare le mani)
- Molti insegnanti hanno un doppio lavoro, e quello di pubblico statale è visto da loro come meno importante
- Ogni giorno si vedono le altre scuole sulla “Libertà”, che hanno organizzato qualcosa per studenti, ma mai la nostra se non per furti e cose negative.
VOCI DI CORRIDOIO
Voci di corridoio, senza essere né un capolavoro né un’imperdibile inchiesta, prova a proporsi come un’interessante apertura di porte e di finestre.
Non riuscirà certo a cambiare l’aria, neppure lo pretende: però forse renderà noi insegnanti più capaci di guardare chi sta fuori e di capire cosa si aspetta dal nostro lavoro, e renderà più acuto lo sguardo di chi sta fuori e guarda verso di noi; e non sarà stato comunque poco.
E se invece non riusciremo a fare nemmeno questo, e vabbè, pazienza: sarà stato in ogni caso bello stare per qualche giorno tutti insieme su una pagina virtuale a raccontarci le nostre storie mattutine; e a raccontarle a tutti quelli che avranno voglia di sopportarci e di leggerci.
Perché c’è della bella gente anche sui socialcosi, checché se ne dica.
Perché da che mondo è mondo gli incontri più veri e le amicizie più belle sono quelle che nascono dalla condivisione del lavoro quotidiano (come anche gli scazzi più atomici e le antipatie più ostinate, perché niente come la vita è capace di coinvolgere e far reagire).
Perché ci sono dei pazzi che trovano ancora il tempo per fare cose gratuite e belle.
(Un grazie a PePPe, allo scorfano e a tutti gli altri)
PEZZI/03
Ma no, non è che ci provo con tutte le ragazze. Non con tutte, almeno. Solo con quelle belle. Con quelle belle, prof, sì che ci provo, ci provo subito!
Perché?!
Come, perché!
Ma perché è tardi, prof, c’ho poco tempo.
Ho diciott’anni, prof. Mio papà a diciott’anni già lavorava, sapeva già cosa avrebbe fatto per tutta la vita.
A vent’anni era già sposato, l’anno dopo sono nato io, l’anno dopo ancora è nato mio fratello Andrej.
Quando è venuto in Italia, papà aveva ventiquattr’anni, una moglie, due figli e era già un bravo muratore.
E adesso papà mi dice di sbrigarmi.
Perché sono ancora in quarta, mi manca un anno prima di finire ‘sto cavolo di scuola e poter andare a lavorare.
Quando avrò finito avrò quasi vent’anni. E mi dovrò sposare, prof.
Ma se non mi do da fare, se non trovo una donna bella che mi sposi e arrivo a venticinque anni, a venticinque anni si è vecchi, prof, a venticinque anni è troppo tardi.
A venticinque anni, se non sei già sposato, ti danno la prima che capita. Si fa un matrimonio combinato, e ti danno quel che c’è. Quello che resta. Ti danno una donna che non ha voluto nessuno, che non si è presa nessuno. Ti danno gli scarti.
E io mica voglio uno scarto, voglio una moglie bella. E allora mi devo dar da fare.
Oh, in Macedonia è così.
ASTRATTO E CONCRETO
Prof, ma il tempo c’è, è qualcosa di concreto. Si sente, il tempo che passa, lo si vede.
Sto spiegando il valore del presente. A studenti di quattordici, quindici anni, tutti proiettati verso il futuro, verso il quando sarò grande o anche solo verso il quando verrà sabato pomeriggio (se non addirittura verso il traguardo minimo del quando suonerà la campanella), cerco di far comprendere il valore eterno dell’istante presente, l’unico che ci sia dato di vivere, fuori dalle metafore del passato (il ricordo presente) e del futuro (l’attesa, la speranza, il desiderio, comunque sempre e solo – e come potrebbe essere altrimenti – presente).
Forzando al massimo e tentando di suscitare reazioni, dico loro che il tempo non esiste, che se hanno del tempo l’immagine di un fiume che scorre, di qualcosa che “passa”, beh, propriamente, in quel senso, non esiste un bel nulla. Non esiste davvero, in realtà. Nel concreto.
Ed è lì che salta fuori l’osservazione del mio studentello.
Che io rintuzzo e smonto da vecchio sofista, ma che apprezzo a non finire.
Perché fra tutte le opposizioni categoriali con le quali ci misuriamo ogni giorno (bello-brutto, buono-cattivo, vero-falso, giusto-sbagliato…), quella astratto-concreto la considero la più riduttiva e menzognera.
Tutte le altre opposizioni dividono il mondo in due parti grosso modo equipotenti. Per ogni affermazione vera ce n’è una falsa, per ogni cosa giusta c’è un errore. Ci son tante cose belle, ma anche tante cose brutte, e l’elenco delle cose vere e delle cose false finisce per equivalersi.
Invece, cose concrete e cose astratte non si equivalgono. Le cose astratte sono molto più delle cose concrete, si pensa. Concreto è quel che è visibile e toccabile. Quel che occupa spazio. Ciò che fa male quando ci sbatti contro. Ma le cose astratte non si vedono e non si toccano. In un certo qual modo non esistono davvero, o almeno, la loro è un’esistenza di serie B. Le cose astratte sanno d’inganno. Si mascherano dietro la potenza della parola, fingono uno spessore che non hanno, non più di quanto ne abbia il fiato necessario a nominarle. Le cose astratte sono un residuo di concezione realista, l’ultimo rifugio della metafisica platonica sfuggito al positivismo.
Fin dalle elementari ci insegnano a braccarle, a render loro la vita difficile, a individuarle per tempo. Fin dai primi timidi addestramenti all’analisi grammaticale. Non bastava individuare i nomi e distinguerli dagli aggettivi e dai verbi; non bastava individuarne genere e numero, no: occorreva distinguere se la cosa era concreta o astratta. Sedia: nome comune di cosa, concreta, femminile, singolare. Dolcezza: nome comune di cosa, astratta, femminile, singolare. Di qua o di là. Di qua, il regno della solida realtà; di là, quello delle pure parole, dei concetti, del flatus vocis.
Poi, crescendo, mi sono reso conto che c’era qualcosa che non mi tornava. Proprio a partire dall’analisi grammaticale. Giustizia: nome comune di cosa. Astratta. Ma come, astratta?! E pensavo a quanto mi faceva male subire ingiustizie, a quanto mi provocasse dolore… Aspetta: dolore. Dolore, è concreto o astratto? Non si scappa: è astratto, non lo vedi e non lo tocchi. Ma come, astratto?! Questo dolore che oggi che mi son rotto un braccio mi fa urlare e piangere mentre mia madre mi porta in ospedale, è astratto? E l’amore? Questo aggrovigliarsi di visceri, questo volerti venire a trovare, questo desiderio (desiderio? astratto!) di vederti, senza sapere che dirti, questa inspiegabile euforia, questo strano misto di dolcezza e paura (paura? astratta!)… tutto astratto. Vuoi mettere con la sedia? Quella sì che è concreta.
Ora, mentre lavoro coi miei ragazzi e tento d’insegnar loro, col tremore ai polsi, cos’è la vita (eh, sì, caro collega, perché se pensi di dover insegnare qualcosa di meno di questo, attraverso la tua letteratura, la tua chimica, la tua biologia e la tua tecnologia delle costruzioni, beh, non hai capito un tubo del tuo mestiere), fra le mille altre cose cerco di far passare (o di inculcare) questa strana legge: crescere, diventar grandi, diventare donne e uomini significa render concreto l’astratto. Significa fecondare il regno monotono e insensato del concreto grammaticale con la possibilità di ciò che sembra astratto. Significa provare sulla pelle, nella carne, nelle viscere quant’è concreto l’astratto. O come ha detto qualcuno che se ne intendeva, significa divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore. Vizi e valori, astratti; eppure, esperto, expertus, sperimentato, capace di provare, in concreto, sulla propria pelle, quei vizi e quel valore.
E allora apprezzo il mio ragazzo che dice che il tempo esiste, che si prova, che si sente, che si vede. Quel che vede, sente, prova non è, in senso proprio, il tempo, è qualcos’altro. Cosa sia glielo dirà la vita. Per l’intanto ha scoperto che qualcosa che è giudicato astratto può essere provato. Non se lo dimenticherà. Per trarne le debite conclusioni gli ci vorrà solo tempo. Che non esiste, che è astratto, ma che ci è dato proprio per comprendere come lasciarci alle spalle quella distinzione menzognera.