Riguardo allo scandalone degli iscritti a Ashley Madison, l’articolo di Piacenza24 dà un’idea della dimensione local dello sputtanamento global, ed è piuttosto interessante. Per dire, a Piacenza risultano 1692 iscritti. A Roma, per fare un confronto, sono 691. La tranquillità della provincia, dicheno. (Che poi, a ben guardare, in realtà è Roma ad essere stranamente virtuosa, o meglio, a organizzare corna e cornetti ancora in modo analogico: una Milano ben più web-friendly di iscritti ne ha 35337) Poi ci sono i particolari, dove, come si sa, ama annidarsi il diavolo. Poche donne su Ashley Madison, si è scoperto. Ma a Rivergaro le donne iscritte erano ben il 30% del totale! …un totale, per la verità di 25 iscritti, ma la percentuale cruda fa nettamente più figo. E poi l’abisso della perdizione: Nibbiano, che dei suoi duemila residenti, bambini e ultranovantenni compresi , ne vede iscritti al sito 145.
I Presidi dei Licei sono nominati dal Re. (Legge Casati, Regio Decreto Legislativo n° 3725, 13 novembre 1859, articolo 230)
Bertagna. Non è propriamente un Carneade, almeno in ambito scolastico. Ma per tutto il resto del mondo: chi caspita è Giuseppe Bertagna?! Giuseppe Bertagna è quel povero Cristo che si è trovato a presiedere il gruppo di lavoro incaricato di stendere le basi pedagogiche e culturali della Riforma Moratti. Ah, bella roba!, mi pare di sentirvi. Eppure, eppure. Oggi ho imparato qualcosa che sapevo confusamente, che mi ronzava per il cervello, ma che se non mi capita, come è capitato oggi, di doverci perder su qualche mezzorata di lavoro non si traduce mai in una consapevolezza piena. E così, prima lo pensavo, ma adesso ce lo so. Oggi ho imparato che, per dirla in linguaggio strettamente tecnico-pedagogico: la riforma Moratti era una figata. Spaccava il culo ai passeri. Riforma Moratti rulez. C’era, nella riforma Moratti, una sapienza e una capacità di armonizzare cultura pedagogica e filosofica, concezione della persona e innovazione didattica, astrattezza teorica e concretezza educativa, recupero della tradizione e visione rivoluzionaria davvero uniche nella storia della scuola italiana. Un’operazione culturale di altissimo livello, della quale Bertagna teneva le fila. Una riforma di razionalità stringente, direi elegante: ridotta all’osso, si tratta di un procedimento in cui l’ideale (il PECUP, il profilo dello studente in uscita) si traduce nella realtà dell’individuazione delle competenze di cui lo studente dev’essere fornito; e queste competenze diventano così gli obiettivi del mio insegnamento, che metto in atto a partire dalla definizione dei singoli obiettivi di apprendimento, espressi in termini di conoscenze e abilità, che mi devono aiutare a costruire quelle competenze, obiettivi che perciò diventano il fine cui tendo progettando le mie lezioni. C’è il tener conto di quel che lo studente è e di quel che deve essere; il tener conto delle capacità che la natura e il suo sviluppo gli forniscono e delle competenze di cui dev’essere in possesso per affrontare autonomamente la vita; e all’incrocio tra questo essere e questo dover essere ci sono io, l’insegnante, l’attività culturale della scuola. Non c’è più un sapere fisso, calato dall’alto, che io professore ti trasmetto perché sì, perché qualcuno ha deciso che questo sapere ha valore, e ne ha più di quanto valga io o di quanto valga tu, studente; no, adesso ci sei tu, studente, e io, insegnante. Lo scopo è la realizzazione di te. E il sapere che voglio aiutarti ad apprendere dev’essere strumentale a quel che tu sei, al progetto che tu stesso costruisci su di te attraverso il sapere. Perciò non c’è più un programma, ma delle indicazioni: una direzione, che però sta a me e a te tradurre in strada. Nella riforma Moratti, Comenio e Rousseau vengono alle mani, e Comenio le prende di santa ragione. Peccato. Perché c’è come un gap triste tra il modo in cui questa riforma è stata concepita, il valore pedagogico e culturale del lavoro di elaborazione che l’ha preceduta, lo sforzo di pensiero che l’ha preparata, e quel che invece è stato fatto passare a tutti noi, operatori dell’istruzione e destinatari, utenti o anche solo semplici cittadini dello Stato italiano. Non vi fu nessun coinvolgimento degli insegnanti, non dico come soggetti di elaborazione (mica balle, non ne abbiano le competenze, quand’anche insegnassimo da ventordici anni), ma anche solo, banalmente, come operai destinati a far funzionare quell’edificio: ben poco si è investito, insomma, sulla formazione degli insegnanti, sul nostro essere davvero consapevoli delle ragioni di quel che ci veniva chiesto di fare, della sua valenza culturale ancor prima che organizzativa o gestionale. In questo lo Stato ha sicuramente fallito, per motivi ideologici, economici, pratici e quant’altro. Ma noi insegnanti siamo stati corresponsabili. Ci siamo subito accodati a omogeneizzare la riforma al generale contesto di tifo da stadio fra le opposte tifoserie di berlusconiani e antiberlusconiani; ci siamo spaccati dal ridere sulle tre I come se davvero fossero state il centro della riforma; ci siamo abbeverati agli allarmismi dei sindacati (oh, anche allora era stata uccisa la scuola pubblica, mica solo oggi, altro che walking dead, ‘sta scuola pubblica continuiamo ad ammazzarla e a tirarla su since 1923, e tutte le volte, di fronte a una nuova riforma, ci troviamo a difendere a spada tratta quello che fino a dieci minuti prima definivamo un cadavere); dai sindacati abbiamo accettato di buon grado la tranquillizzante tutela dei diritti acquisiti di chi era nelle graduatorie ad esaurimento ed il sistematico sabotaggio delle SSIS, alcune certo capaci di sabotarsi da sole, ma altre, in quegli anni, capaci di porsi come unico tentativo credibile di dare una reale formazione agli insegnanti, di renderli consapevoli del loro lavoro, di far loro sollevare lo sguardo dal programma, dal libro di testo e dalla lezione. Dietro la riforma Moratti c’era un lavoro culturale enorme, di cui chi non è addetto ai lavori non conosce che una minima parte. Un po’ perché quasi nessuno si è interessato di farci vedere di più, per calcolo, per necessità, perché non ci sono i soldi per l’aggiornamento e la formazione, per spocchia, per stupidità; un po’ perché, ammettiamolo, di pedagogia e didattica gliene frega niente a nessuno, in primis agli insegnanti, figurarsi al pubblico di tv e giornali, e per il resto del mondo la scuola è quella roba che serve a dare un diploma a mio figlio e bon basta; ma un po’ anche perché siamo stati noi insegnanti a non aver voluto e a non voler vedere di più, perché in fondo in fondo molti di noi sono tuttora convinti che il nostro lavoro sia quel qualcosa che accade in aula dalle 8.00 alle 8.55 tra noi, il nostro testo e quei baluba che abbiamo davanti, e una volta che è suonata la campanella tana liberi tutti. Non dite balle, li conoscete, ce n’è ancora un botto che la vedono così. Gli stessi che poi strepitano se qualcuno dice loro che lavoriamo solo diciotto ore la settimana.
C’è questo posto, in Olanda, dalle parti di Amsterdam, De Hogeweyk, dove stanno solo persone affette da demenza senile. I pazienti vivono una vita normale, non sanno di essere in un posto deputato alla loro cura. Medici, infermieri, inservienti, vivono anche loro nel paese e interagiscono coi pazienti in abiti borghesi, come fossero personaggi di un gigantesco Truman Show. Le ambientazioni delle case sono diverse a seconda dell’esperienza di vita del malato: case operaie, ambientazioni aristocratiche, atmosfere antillane o indonesiane per chi proviene dalle ex colonie. La cura praticata è la Reminiscence therapy: i pazienti raccontano di continuo episodi del loro passato e questo li provvede di un senso di continuità confortante. Il risultato è una vita più attiva ed un minor bisogno di cure mediche.
Non so, è una cosa allo stesso tempo malinconica e triste, civile e piena di umano rispetto. Una cosa molto olandese, ecco.
…certo, tristezza e malinconia insignificanti in confronto a quelle che mi invadono nel venire a conoscenza dell’esistenza della minoranza linguistica croata in Molise: una sparuta minoranza, circondata, com’è noto, dal nulla.
Il mio, personalissimo WTF?! del giorno consiste nella scoperta del fatto che non è necessario che le scuole paritarie abbiano, propriamente, un dirigente scolastico. Un preside, per capirci. Proprio così. Innanzitutto si parla non di dirigente scolastico, ma di coordinatore didattico. E l’impressione è che la legislazione, nel susseguirsi di circolari e note esplicative dal 2000 in poi, si sia fatta sempre più nebulosa e imprecisa, fino a delineare una situazione in cui non solo non è assolutamente necessario che alla guida di una scuola paritaria vi sia un dirigente scolastico, ovvero qualcuno che abbia passato un concorso per dirigenti; ma non è nemmeno strettamente necessario che vi sia un insegnante munito di abilitazione! (E qui il mio WTF?! raggiunge proporzioni mastodontiche, oserei dire siffrediche). Le varie circolari in fondo si limitano a dire che il coordinatore didattico: a) nelle scuole secondarie inferiori e superiori, deve essere provvisto di laurea o di titolo equipollente (abilitazione all’insegnamento: non pervenuta); b) deve avere titoli culturali o professionali non inferiori a quelli previsti per il personale docente (ancora una volta, l’abilitazione non viene espressamente nominata; ma – si dirà – c’è un riferimento esplicito ai “titoli professionali” del docente, no? Vero, ma la vedi quella “o” ? Ah, la diabolicità di quella “o”…); c) deve essere munito di esperienza e competenza didattico-pedagogica adeguata (e qui cascherebbe l’asino; peccato che misuratori di competenza pedagogico-didattica non ne abbiano ancora inventati); d) e comunque abbiamo anche una nota ministeriale che recita testualmente: Precisato che l’espressione “dirigente scolastico”, propria delle scuole statali e conseguente al relativo ordinamento del personale, non determina alcun obbligo di equiparazione nelle scuole paritarie… E quindi. Per carità, una logica c’è: le scuole paritarie hanno come principale referente non tanto il preside, ma il cosiddetto gestore. Per intenderci: stiamo parlando dell’ente ecclesiastico, o della Fondazione, o della famiglia di privati che possiede e gestisce l’istituto. È il gestore ad essere il garante dell’identità culturale e del progetto educativo della scuola, ed è l’unico ad essere ultimamente responsabile della conduzione dell’istituzione scolastica nei confronti dell’Amministrazione e degli utenti. Tuttavia, nel momento in cui le condizioni per il riconoscimento della parità, che per carità non vi sto ad elencare, prevedono nei fatti che l’istituto paritario funzioni in un modo del tutto identico a quello della tradizionale scuola cosiddetta “pubblica” – dagli organi collegiali al Pof, dalle attività di programmazione all’autonomia scolastica, dai millemila progetti alla gestioni minuta e quotidiana delle questioni burocratico-amministrative, dalla gestione dei rapporti coi docenti e con le famiglie all’attenzione alla qualità della didattica -, non si vede come sia possibile per chi non abbia, non dico una qualifica dirigenziale, ma almeno un’abilitazione all’insegnamento ed un minimo – un minimo! – di esperienza scolastica star dietro a tutto questo senza essere un mero pupazzo di gomma. E insomma, boh.
Il grande rottamatore. È il modo in cui Paasilinna, in Piccoli suicidi fra amici, si riferisce a Dio. Unite i puntini e fate voi le battute su Renzi, il renzismo e il parallelo col berlusconismo dell’Unto del Signore, che qui non possiamo pensare a tutto noi.
E già che ci siamo (ma qui non so se è una cosa che ho imparato oggi o un ricordo che viene a galla tra le nebbie dell’Alzheimer incipiente, come si scherzava nei commenti qualche giorno fa, e comunque scusate l’ignoranza politica): la prima Leopolda, quella del 2010, porcoggiuda, ma da chi fu organizzata? Sì, da Renzi, certo, ma insieme a chi? Ricordo che c’era un altro. Civati? Possibile?!
In caso di mobbing, l’onere della prova ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro spetta al lavoratore. Uhm.
Per Gardner l’intelligenza è multipla, ed è un’abilità: più precisamente, un’abilità con cui risolvere un problema o con cui realizzare un prodotto che ha valore in uno o più contesti culturali. Quest’ultima sottolineatura è bellissima. Essere in grado di trovare l’acqua nel deserto del Kalahari è un’abilità che nel boscimano denota una spiccata intelligenza. Da noi, i 67.000 followers di Gasparri su Twitter o le 100 milioni e rotti di visualizzazioni del Pulcino Pio su YouTube, denotano un’intelligenza spiccata in Gasparri e nell’autore del Pulcino Pio. Stacce. Se non ti piace, è inutile che te la prenda con me, con Gasparri o col Pulcino Pio: se problema c’è, sta in quel che il nostro contesto culturale considera valore.
I test d’intelligenza vengono tuttora considerati validi. Pensavo che da mo fossero stati ridotti a passatempi estivi o a rubrica di rotocalco o di Cioè, e invece. Per esempio, la quarta e ultima versione del WISC (WISC-IV,Wechsler Intelligence Scale for Children) è del 2003 (introdotta in Italia nel 2012), quella del WAIS (WAIS-IV,Wechsler Adult Intelligence Scale) è del 2008 (in Italia dal 2013). Certo, questi test sono una versione estremamente evoluta, e modificata, dei vecchi testi di Binet e Simon, che passarono attraverso Terman, che divennero scala Stanford-Binet, e che generarono i test Alpha e Beta dei reclutamenti per la prima guerra mondiale che al mercato mio padre comprò. Ma sono comunque roba di un secolo fa, almeno come concezione di fondo. Eppure sembra che l’idea di misurare l’intelligenza di un individuo attraverso domande, test e quiz sia ancora del tutto accettabile. La mia ignoranza si perplime, e constata.
Il burro fa male. E fin qui. Ma la cosa interessante è che ne abbiamo la conferma ufficiale grazie ad una ricerca commissionata dalla Danish Dairy Industry, che di burro ne produce qualche tonnellata. Insomma: la Danish Dairy, un mostro che riunisce 34 produttori, una potenza capace di sottoporre a trasformazione la bellezza di circa 4.9 billion kg milk for high-quality products (!!!), ha pensato bene di sovvenzionare uno studio approfondito sulle qualità del burro, ovviamente allo scopo di incrementarne l’appetibilità, e quindi le vendite: il risultato è stato uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition in cui si sostiene che even moderate levels of butter consumption could result in higher cholesterol. At the very least, the study showed that butter raises blood cholesterol levels more than alternatives such as olive oil. E insomma, oggi ho imparato che è possibile, che possono esistere ricercatori capaci di fare il proprio lavoro obiettivamente e onestamente, senza sottostare agli interessi di KI LI PAKA!!1!
È da un bel po’ che non vado alla Lidl, e così non ero a conoscenza di quel che descrive La Due Dodici nel suo stato di Feisbuc. Per chi non potesse leggerlo, il fatto è che alcune catene di supermercati (e in Italia la prima è stata proprio Lidl) si sono stancate di subire in silenzio il furto di decine di carrelli ogni mese, con un danno che pare aggirarsi tra gli 80 e i 120 euro a pezzo. Hanno così munito i carrelli di un particolare tipo di ganascia che scatta automaticamente quando il carrello si allontana oltre una certa distanza dall’uscita del supermercato, che so, al di là del limite del parcheggio. E così l’incauto avventore che, più che tentare di fottersi il carrello, è uso utilizzarlo per portarsi la spesa fino a casa, va incontro a inaspettati e repentini schianti contro il maniglione nel momento in cui si trova ad oltrepassare l’invisibile confine. La Due Dodici dice che starebbe tutto il giorno a guardarli. La capisco, e provvederò a recarmi al più presto alla Lidl più vicina per unirmi a questa forma di umarellismo spinto e un po’ bastardo.
Ieri notte sono andato a prendere il ragazzo a Orio al Serio, di ritorno da Valencia. Viaggiare di notte, in piena estate, sul tratto Piacenza – Brescia dell’A21 è quasi come guidare in mezzo a una nevicata sul Pordoi: insetti di tutte le fogge e dimensioni, vorticanti come fiocchi di neve, spuntano di continuo dal nulla intersecando i fasci dei fari e vengono a schiantarsi sul parabrezza, sul cofano, sugli specchietti, dappertutto, al ritmo di centinaia al minuto, o comunque di svariate decinaia. Moscerini, moschini, farfalline, cavallette, locuste, cammelli. Di tutto. Un continuo crepitare e scoppiettare. Ho la macchina conciata come se fossi passato sotto uno stormo di gabbiani dall’intestino debole. Che poi, tra la quantità incredibile di insetti e la fantasmagoria di puzze che si avvertono tra Cremona e Manerbio, credo che i piedi neri del bambino siano proprio l’ultimo dei problemi di Ghedi.
Credevo che il Monte Bianco fosse stato scalato, ad essere generosi, nel milleottocentoequalcosa. E invece, grazie al doodle di Google di oggi, scopro che la prima scalata è del 1786. Non mi capacito. Mi immagino uomini dell’ancien regime, in calze di lana, sciarponi e parrucca, affrontare un’impresa che io oggi eviterei non fosse che per risparmiarmi la spesa dell’attrezzatura. Invece questi, hop hop, e vanno su vestiti da honnête homme di fine Settecento. Nel 1808 va su perfino la prima donna, in gonnellona plissettata e stivali fino alle ginocchia. Un altro pianeta.
Oggi è la storia a farla da padrona. Grazie al ClassiCult del Fraccalvieri, leggo la notizia della scoperta del monolite sommerso al largo della Sicilia, a metà strada da Pantelleria. Là dove oggi non c’è che acqua a perdita d’occhio, i Siciliani del Mesolitico drizzavano menhir da decine di tonnellate. Stiamo parlando di undicimila anni fa. Nemmeno erano nati i quadrisavoli degli spermatozoi del primo celta padano! I romani non esistevano nemmeno a livello di antenato di Enea, Troia era ben lungi dall’essere una città e già i siciliani modellavano pietroni megalitici. Sono undicimila anni che lavorano, ci credo che oggi sembrano prendersela un po’ comoda: è stanchezza. Unita alla saggezza e al disincanto di chi era al centro di una civiltà dalle caratteristiche omogenee sparsa per buona parte del Mediterraneo in un’epoca in cui il Mediterraneo, come lo conosciamo oggi, nemmeno esisteva.
Non tutti nella capitale nascono i fiori del male. Qualche testa di minchia senza pretese l’abbiamo anche noi in paese, e così stamattina scopro che a meno di due, trecento metri da casa mia un esemplare rappresentante della categoria ha passato la notte a dar fuoco alle automobili. Quattro, per la precisione. La Kia l’ho subito spostata in garage, penso che stanotte chiederò al figlio di dormire nella 106.
Il gioco 20 Questions, nelle sue versioni da tavolo e elettronica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosino e stucchevole), nasce paro paro da una strategia pedagogica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosina e stucchevole) inventata dal solito Bruner per stimolare negli alunni l’apprendimento per scoperta. Agli allievi veniva proposto un problema, e avevano a disposizione appunto venti domande per trovare la soluzione. La strategia giusta è partire dalle domande più generali per poi restringere progressivamente il campo, chevvelodicoaffà.
Il tutor è colui che affianca nell’apprendimento o nella scoperta il soggetto in apprendimento: lo sanno pure li cani, e quindi lo sapevo pur’io. Ma come si chiama il soggetto in apprendimento? Forza, potete farmi venti domande.
…
Eh eh. Si chiama tutee.
Esiste un bug che si chiama white screen of death. In pratica, tu ci hai un blog, entri nell’amministrazione col tuo username e la tua bella password, e lì trovi il nulla. Cioè, io trovavo a lato la serie di opzioni e di funzioni, ma a cliccarci sopra non succedeva nulla: il resto dello schermo restava, appunto, bianco. Ma se hai una nipote geniale, esperta di informatica e al nono mese di gravidanza (così che non possa fuggire da nessuna parte, grazie Caterina :)), la sventurata può farti la diagnosi, il backup, l’aggiornamento all’ultima versione di Wp e restituirti il blog spolverato, lindo e funzionante come non mai, ed è subito, ancora e sempre, 2003!
C’è maretta, in questa quarta. Storie di favoritismi, veri o presunti tali, e di leccaculismo reale o supposto hanno reso i rapporti piuttosto tesi. A farne le spese, a torto o a ragione non so – e non m’interessa gran che -, è soprattutto una ragazza, più ingenua o più fessa degli altri, che senza curarsi dell’indice di gradimento tende a coltivare il proprio orticello in modo senz’altro lecito ma piuttosto esclusivo, al prezzo di continui scazzi coi compagni. E allora, all’ennesimo scazzo, il compagno più scafato e più tecnoevoluto sai che fa? Col cellulare, durante un cambio d’ora registra alcune affermazioni della ragazza, piuttosto pepate e non proprio ortodosse, riguardo ad alcuni insegnanti. Dopodiché le fa riascoltare all’autrice e la minaccia di renderne edotti gli interessati. Insomma, intercettazione fai-da-te e relativo ricatto in sedicesimo. Son qui a fare un’ora di sostituzione e perciò chiedo conto del marasma in cui m’imbatto al mio ingresso nell’aula. Così la ragazza, a dir poco alterata, mi mette a conoscenza della situazione tra le risate e i salaci commenti dei compagni. Non ho avuto una reazione molto equilibrata. Anzi, diciamo che mi sono incazzato di brutto. I ragazzi sono tutti maggiorenni o al limite dei diciott’anni. E io mi chiedo (al di là della liceità “penale” di un comportamento del genere) quanto di questa bravata sia frutto di stronzaggine congenita e quanto invece sia figlio del recente, martellante riferimento mediatico alle intercettazioni, del quale questi ragazzi hanno colto – e mi ripetono – quel che ritengono essere il succo della questione (dalle intercettazioni si ricava LA VERITÀ!), senza capire un prospero di tutto il contesto di polemiche e argomenti contro o a favore delle intercettazioni. Alcuni di loro – compreso il bricoleur dell’intercettazione – sono in qualche modo recidivi nell’arte del render pubblico quel che non lo è: già un paio di volte li ho avvertiti e ripresi io stesso, in relazione ad alcuni eleganti post scritti su Facebook in cui (riferendosi alla preside e ad un compagno di classe, entrambi citati con nome e cognome) si producevano in insulti sanguinosi e in prese in giro feroci, del tutto inconsapevoli delle possibili conseguenze. Che allora si palesarono in una denuncia della preside alla polizia postale. Non so, ho sempre più l’impressione di essere circondato da un branco di minus habentes, ai quali sia stata messa in mano un’arma senza essersi assicurati della presenza del buon senso necessario a discriminare il come e il quando usarla, e soprattutto il se. Per quel che mi riguarda – dico loro -, da qui fino all’ultimo giorno della quinta in questa classe non tollererò che un cellulare venga tenuto in mano durante le mie ore, acceso o non acceso, smart o dummy che sia non m’interessa. Requisizione, consegna in presidenza, convocazione dei genitori e tutto l’ambaradan del caso, mica balle. ‘Nziamai che mi ritrovi sputtanato per una parola non appropriata, un epiteto poco ortodosso, un filmato in cui mi si veda con l’indice nel naso. Vai a contestualizzare, poi, a latte versato. Deficienti.
No, c’ho mica più voglia, ogni anno che passa ricominciare è sempre più pesante. Allora sai mica cos’ho pensato? Ho messo in piedi una bella gabola. Ora ti spiego. Devi sapere che son figlio di agricoli. Quand’ero ragazzo, tutte le volte che ero a casa da scuola, d’estate, davo una mano ai miei a lavorare nei campi. E allora ho fatto richiesta di riscattare i contributi di dodici anni di lavoro come coltivatore diretto, da quando avevo quattordici anni a subito dopo la laurea. Oh, m’han mica respinto la richiesta?! Dicono che non c’è mica niente che provi che io facevo il coltivatore diretto, che basta mica esser figli di contadini. Stronzi, lo sanno tutti che i figli dei contadini danno una mano nei campi. Ma loro no, vogliono le prove. Che prove?, gli dico. Un qualsiasi documento da cui risulti che lei faceva l’agricoltore, mi dicono. Bon. Com’è, come non è, mi è venuto in mente che una volta, lavorando nei campi, io m’ero fatto male. M’han portato al pronto soccorso e mi hanno tenuto in osservazione uno o due giorni. Sono andato a recuperare la carta di ricovero, e alla voce professione ci avevano scritto coltivatore diretto! Ho subito fatto ricorso, e adesso aspetto la risposta. Capisci? C’ho cinquant’anni, verso seimila l’euro per ciascuno dei dodici anni di contributi, e con settantaduemila euro riesco ad andare in pensione fra quattro anni! …Smettere di lavorare? Ma sei scemo?! Sapessi quanto lavoro mi tocca rifiutare per questo insegnamento del cavolo! Una volta in pensione faccio l’ingegnere a tempo pieno, e tra la pensione e i soldi in più che mi entrano, i soldi dei contributi li ammortizzo in un niente! Seeh, smettere di lavorare. A cinquantaquattr’anni, figurati!
Non sempre l’igiene personale era sconosciuta: anche ritenendo una misura d’eccezione (dovuta alla circostanza) la pulizia integrale degli ammalati al momento del loro ricovero in qualche grande ospedale (accadeva così, per esempio, per il S. Maria della Scala di Siena, nel Trecento), alcune parti del corpo erano usualmente sottoposte a pulizia. Così era per le mani, che di norma venivano lavate prima e dopo il pasto, almeno nei grandi banchetti e fra la nobiltà. Non è senza significato, del resto, che nei corredi di nozze delle aristocratiche o delle ricche borghesi non mancassero mai bacili, “mesciroba” (brocche per l’acqua) e asciugamani destinati a questo uso. Molto probabilmente fra la gente del popolo le cose andavano in maniera diversa, almeno se dicono il vero le feroci descrizioni dei novellieri; certo il sapone era una merce ricercata e costosa (nel 744 Liutprando ne faceva dono in buona quantità alla Chiesa di Piacenza “ad pauperes lavandos”, per lavare i poveri, con un atto che parve degno di essere ricordato per scritto), tanto che le tariffe doganali cui era sottoposto raggiungevano, almeno nel Piemonte del Duecento, i livelli delle più preziose sete o velluti.
D. Balestracci, L’igiene nel Medioevo. Le castellane al bagno, in Civiltà 13, luglio 2011, pp.16-18
La scuola, si sa, è un servizio pubblico: il trend degli ultimi vent’anni è quello di misurarne qualità e efficacia secondo gli standard propri di qualsiasi altro ufficio. Per esempio pare che sia importante, al termine della prestazione d’opera, chiedere alla clientela di esprimere un giudizio sul servizio offerto. E così da qualche anno chiediamo agli allievi delle classi quinte di riempire un questionario sui loro cinque anni di esperienza presso il nostro Istituto. Lo facciamo verso la fine di maggio, e per darci un tono lo chiamiamo Monitoraggio sulla qualità dell’offerta formativa.
Fino all’anno scorso il questionario consisteva in una serie di stimoli preconfezionati. Per esempio, un item diceva qualcosa del tipo: Gli insegnanti sono preparati e hanno un buon rapporto con gli allievi, e lo studente doveva barrare una crocetta lungo una scala graduata da 1 a 10, a seconda di quanto la frase corrispondesse alla propria esperienza. Se barrava in corrispondenza del 10 gli insegnanti risultavano essere dei missionari onniscienti, se barrava sul 4 o anche più a sinistra i professori diventavano degli ignoranti bastardi.
Inutile dire che la maggior parte delle risposte degli studenti finiva per concentrarsi sulla sufficienza risicata. Un po’ perché alcuni item risultavano loro poco chiari e comprensibili, o comunque al di fuori delle esperienze e delle possibilità di verifica della maggior parte di loro (La gestione del budget da parte del Consiglio d’Istituto è stata efficiente e trasparente); un po’ perché, nella mente avveduta dello studente medio, per esprimere giudizi sulla scuola e sugli insegnanti è meglio attendere l’esito dell’esame di Stato…
E così i questionari si sono sempre ridotti ad un noioso lavoro di compilazione e raccolta, buono solo per far perdere un po’ di tempo ai ragazzi durante le ore noiose degli ultimi giorni di scuola e per far perdere qualche minuto agli insegnanti durante le ancor più noiose ore del collegio docenti di giugno.
Ma quest’anno, complice un’atmosfera di precoce smobilitazione legata al simultaneo pensionamento del preside e di un gruppetto di colleghi storici, io e l’insegnante di matematica con la quale son solito condividere la menata abbiamo pensato, tempo perso per tempo perso, di cambiare le carte in tavola e di proporre ai nostri fanciulli qualcosa di meno “scientifico”, ma forse più stimolante. Ci siamo guardati in faccia e nelle nostre menti è scattato il colpo di genio: e se quest’anno – ci siamo detti – invece di presentare ai ragazzi la pappa pronta, gli item già belli e preconfezionati e le scalettine graduate provassimo – che audacia! – a permettere loro di scrivere davvero quello che pensano? Se provassimo a limitarci a chieder loro quattro semplici cose: quali sono secondo voi gli aspetti positivi di questa scuola; quali gli aspetti negativi; in cosa ritenete che la nostra scuola sia migliore delle altre scuole cittadine; in cosa credete che sia peggiore? E poi ci limitassimo a leggere al collegio docenti quello che salta fuori? E così abbiamo fatto.
A chi interessasse, quel che segue è la fedele trascrizione di quel che ne abbiamo ricavato. Errori grammaticali, sintattici e logici compresi.
Aspetti positivi della nostra scuola
I professori sono disponibili ad aiutare gli studenti
Gli insegnanti sono molto bravi e comprensivi; non sono severi, tranne qualche volta in cui cercano solo di aiutarci a far capire le cose.
Con i prof c’è un libero scambio di opinioni
I docenti ci aiutano umanamente
I professori sono simpatici e molto diligenti
Gli insegnanti rispettano le attività sportive/extracurricolari degli studenti
Quasi tutti gli insegnanti svolgono anche un’attività propria, quindi possono parlarci delle loro esperienze sul campo.
Il rapporto studente/insegnante è corretto, esigente ma anche umanamente piacevole.
Nel corso della mia carriera scolastica ho trovato insegnanti preparati, disponibili, e qualche volta sensibili alle nostre esigenze.
Gli insegnanti aiutano gli alunni anche in caso di problemi fuori dall’ambito scolastico e sono pronti ad ascoltarci e capirci.
C’è un clima di assoluto benessere
E’ una scuola tranquilla dove ci si trova bene con tutti
E’ un ambiente dove si viene volentieri
E’ una scuola abbastanza tranquilla, nel senso che i ragazzi non hanno la libertà di comportarsi in modo inadeguato.
C’è possibilità di relazionarsi con tutto il personale scolastico e con gli altri studenti perché siamo in pochi
In fin dei conti c’è un buon ambiente in cui studiare, con sintonia tra le varie classi e le “mele marce” vengono smaltite.
Non ci sono pomeriggi
In città, è comoda e facile da raggiungere
La scuola ha laboratori di inglese, CAD e disegno efficienti, ed è in una zona facilmente raggiungibile rispetto alla vecchia.
Siamo in una zona strategica
Ci sono esperienze internazionali per aiutarci a migliorare in inglese
C’è la possibilità di progredire nell’uso della Lingua inglese grazie a corsi supplementari e al PET.
I nostri progetti europei sono molto interessanti
In segreteria sono generalmente molto disponibili
Segreteria e staff scolastico molto efficienti
Il servizio di segreteria è sempre disponibile, se hai bisogno qualcosa
Un punto a favore sono gli incontri che abbiamo fatto con la Croce Bianca, i Maestri del Lavoro etc .
Per le classi V sono state organizzate uscite e visite a varie università e Campus
L’attività sportiva è adeguata, ma alcune attività vengono riservate solo ai maschi
I tornei d’istituto sono ben organizzati
Insegnamento di autocad
Raccolta differenziata nei corridoi
Nei bagni delle ragazze c’è quasi sempre sapone e carta igienica
Aspetti negativi della nostra scuola
Le strutture sono troppo deteriorate rispetto all’anno di costruzione
E’ una scuola costruita un po’ “con i piedi”
L’edificio pur essendo nuovo presenta molte problematiche: piove dentro, ci sono crepe e muri rovinati
D’inverno c’è troppo freddo in alcune aule
Nei periodi in cui piove si verificano infiltrazioni d’acqua dal solaio disturbando sia le lezioni che il passaggio nei corridoi
L’acustica nelle aule è pessima
L’ascensore sembra fatto d’oro, che al solo sguardo di un ragazzo sano possa svanire e non esserci più
Palestra fuori sede
I servizi che ci offre la scuola, le aule speciali e i laboratori sono poco utilizzati.
Si dovrebbero fare più ore di AUTOCAD
Durante le ore di Impianti nel corso del quarto e quinto anno si dovrebbe utilizzare molto di più l’aula CAD
C’è poca disponibilità delle aule computer
Alcuni computer durante l’uso di Progecad si rallentano molto o si bloccano del tutto
Le aule di informatica non sono adeguate, infatti i computer hanno sempre problemi che rallentano il lavoro
I laboratori di fisica e chimica non vengono utilizzati
Il laboratorio di chimica non è a norma
Le aule speciali a disposizione non vengono sfruttate sufficientemente
Troppo poco lavoro sul campo; in una scuola come la nostra sarebbero necessarie più esperienze di lavoro
Ci sono poche uscite didattiche sui cantieri
Poca esercitazione pratica soprattutto per quanto riguarda l’uso degli strumenti
La parte pratica di Topografia è scarsa
I professori accompagnano poco lo studente nella realizzazione del progetto per il quinto anno
Carenza di progetti extrascolastici che aiutino gli studenti all’inserimento nel mondo del lavoro
Non si fanno abbastanza ore di pratica.
Se lo stage viene fatto una sola settimana in un anno, è inutile
Mancanza di serietà nelle assemblee di istituto e di classe
Le informazioni richieste in segreteria molte volte sono senza risposta
I professori dovrebbero sanzionare di più gli alunni (punizioni concrete)
Contenuti piuttosto poveri nei programmi di alcune materie tecniche
Il metodo delle interrogazioni programmate non aiuta per l’apprendimento di un buon metodo di studio
Mancanza di progetti finiti già fatti da proporre come modello agli studenti delle V
Assenza di carta igienica nei bagni
I bagni sono spesso senza carta e senza salviettine
Inadeguati gli orari di apertura dei bagni
Mancanza di altre lingue oltre all’inglese
La nostra scuola è migliore delle altre
A mio parere prepara al lavoro molto meglio di altre scuole
Prepara a certi indirizzi universitari (architettura, ingegneria) meglio che i licei
Dà una formazione adatta sia al lavoro sia all’università
Facciamo i Progetti Europei
Usiamo molto il laboratorio di informatica/CAD
Abbiamo aule innovative e possiamo avere l’ECDL
Ci dà una preparazione che ci aiuta molto ad entrare nel mondo del lavoro.
Ci sono più opportunità di lavoro o proseguimento degli studi dopo il diploma
Manca il latino tra le materie di insegnamento
Non è pesantissima e la preparazione è buona
I nostri studi sono basati su qualcosa di concreto e che abbiamo sempre intorno a noi
Penso che questa sia una scuola che più di tutte le altre prepara al mondo del lavoro
C’è un miglior rapporto tra professori e studenti
È migliore l’atmosfera e la gente che frequenta questa scuola
Tra compagni ci si aiuta sempre
Essendo in pochi nell’istituto si riesce a seguirci tutti
Gli insegnanti sono più disponibili
Il rapporto con gli insegnanti e il personale è ottimo, anche perché essendo in pochi ci conosciamo tutti
C’è più semplicità e disinvoltura
La nostra scuola è meglio per modernità e reputazione
C’è un numero di iscritti ridotto
Nelle classi c’è un’integrazione pacifica, senza discriminazioni
Ogni anno si organizzano buone gite e attività extracurricolari
La nostra scuola è peggiore delle altre
Impossibilità di fare fotocopie urgenti in certi orari
Mancanza di una propria palestra
In alcune scuole i rappresentanti d’istituto sono più coinvolti in tutto; gli studenti sono più legati tra loro e organizzano cene e feste d’istituto
Nelle altre scuole fanno stages più lunghi e più frequenti
Scarsità di denaro (non si comprano neanche le tovagliette per asciugare le mani)
Molti insegnanti hanno un doppio lavoro, e quello di pubblico statale è visto da loro come meno importante
Ogni giorno si vedono le altre scuole sulla “Libertà”, che hanno organizzato qualcosa per studenti, ma mai la nostra se non per furti e cose negative.