E niente. Glielo devo, a Giuseppe.
Non so proprio cosa scrivere. Forse la cosa migliore è cominciare dall’inizio. Ci provo.
Non è la prima volta che muore un mio studente. In ventiquattro anni di insegnamento, a botte di circa tre, quattrocento studenti l’anno, non è così improbabile avere a che fare con tragedie del genere.
(Senza contare la morte di colleghi, o la morte dei genitori dei miei allievi. Ma la morte di un ragazzo, beh, è molto più difficile da accettare.)
Negli ultimi anni, per dire, sono morti due miei ex allievi.
Uno al primo anno di università. A un incrocio con la statale 45. Non so se avesse torto o ragione, chissenefrega, fatto sta che bum, c’è rimasto secco sul colpo. Vent’anni, brillante, matricola a ingegneria dei trasporti, se ricordo bene, ma non importa. Quanti dei miei studenti sono rimasti coinvolti in incidenti, quanti ne sono morti? Non so, certo non una moltitudine, ma nemmeno pochi. Gli incidenti, si sa. Càpitano.
L’altro, alle soglie della laurea. La puntura di un’ape, di una vespa, vallo a sapere. Mentre stava andando a casa in motorino, lui che abitava in campagna. Ha fatto a tempo ad arrivare, a togliersi il casco e a dire che stava male. Poi, buio. Shock anafilattico. Che è già diverso da un incidente d’auto, eh. Il fattore sfiga assume dimensioni più mostruose, e tutto cospira per farti bestemmiare come se non ci fosse altro mezzo per dare sfogo al dolore. Ma si sa, son cose che capitano. Raramente, eh, grazie al cielo, ma capitano.
Ma Giuseppe no. È tutta un’altra storia. E non me ne capacito, non mi do pace.
Giuseppe ce l’ho avuto per un solo anno. Ma era l’anno della mia unica supplenza annuale di storia e filo. Così, con la classe di Giuseppe ho trascorso più tempo di quanto non ne trascorra normalmente in cinque anni con le classi in cui insegno religione. A quei ragazzi mi sentivo e mi sento tuttora legato.
Fatto sta che Giuseppe era un mio allievo. Bravo, capace. Timido, mai sopra le righe, ma di compagnia, spiritoso e sveglio.
L’ultimo ricordo che ho di lui è una sua mail che mi ha scritto all’indomani della terza prova d’esame, con una sua battuta e i ringraziamenti per il messaggio di auguri che avevo spedito loro la sera prima.
Giuseppe ha studiato a Pavia e si è laureato in biotecnologie, naturalmente in corso.
Giuseppe ha compiuto ventitre anni il 21 agosto.
E una settimana dopo, la sera, Giuseppe si è buttato sotto a un treno nella stazione di Pavia.
Perché.
Perché, perché. Perché.
Boh.
Io l’ho saputo solo ieri sera. Mentre partecipavo all’asta di un fantacalcio. Perché è giusto che la vita ci prenda per il culo, è giusto così. Me l’ha detto un suo ex compagno di classe.
Era un po’ di tempo che Giuseppe aveva dei disturbi, mi ha raccontato. Niente di grosso, delle amnesie, ma insomma, la cosa lo aveva preoccupato. E ha provato, come è ovvio, a guardarci dentro.
Ma a quel che ho capito, non ha nemmeno aspettato di avere in mano l’esito delle analisi. Ha lasciato un messaggio, credo sul telefonino, e il senso del messaggio era: preferisco aver vissuto pienamente anche solo ventitre anni piuttosto che vivere da larva il tempo che mi rimane.
Il telefonino lo ha abbandonato, o gettato, sulla banchina della stazione di Pavia.
Su Facebook ci sono i messaggi dei suoi amici, come sempre in queste occasioni. Sono tutti improntati a grande tristezza, com’è ovvio, ma anche a grande pace. Sembrano tutti comunque contenti di averlo conosciuto, di avere avuto a che fare con lui (giuro, li capisco, e credo che siano sinceri, ché il ricordo che ho di Giuseppe mi porterebbe a dire le stesse cose).
Poi ci sono i suoi ultimi messaggi. Giuseppe che ringrazia gli amici per la festa di compleanno a sorpresa. Giuseppe che posta il video delle canzoni di un paio di gruppi a me ignoti. Giuseppe che non si ricorda di aver spostato in un’altra cartella i filmati della sua vacanza, e che la trova vuota. Una delle sue amnesie, forse. Fatto sta che ventiquattr’ore dopo si buttava sotto a un treno.
La sorella dice che non lo perdonerà mai. Che questo non glielo doveva fare. Che certo, continuerà a volergli bene, ma non doveva farli soffrire così.
E insomma, tutto il luna park del dolore, tanto scontato quanto inevitabile e vero.
E io non so cosa dire. Al solito mi vien da pensare a un bel po’ di cose, forse banali, ma non so che farci.
Tipo.
Ma porca puttana, con 603 contatti su Facebook, neanche un cane con cui provare a parlare a tu per tu, con cui sfogarti, a cui dire che non ne potevi più?! Perché sempre questa sorpresa, questo dire ma non sembrava, nessuno se l’aspettava?
E davvero non sembrava? Chissà quanti segnali avrai dato, chissà quante parole buttate lì, quanti discorsi appena abbozzati. Chissà quanti momenti in cui sei stato insieme a qualcuno ma senza che nessuno fosse davvero presente, lì, per l’altro. Disposto davvero a guardare l’altro, disposto davvero all’ascolto. Chissà quanto dolore ci passa accanto, anche in chi ci è più vicino, e noi manco ce ne accorgiamo.
E di cosa hai avuto paura, Giuseppe? Non di morire, è evidente. E nemmeno del dolore. Non hai fatto una morte meno dolorosa di quella che (forse!) ti era destinata. E allora, di cosa hai avuto paura?
Ahimè, di vivere. Non mi viene altra risposta. Di vivere a condizioni diverse da quelle che tu volevi porre.
Ne avevi diritto? Sei stato vigliacco? Sei stato coraggioso? Ti sei sentito solo? Abbandonato?
La cosa tremenda è che né io, né nessuna delle persone che tu hai incontrato in ventitre anni è stata in grado di lasciarti qualcosa che, in quel momento, fosse in grado di fermarti, di farti cambiare idea.
È per questo che sono triste. Che scrivo questo post orrendo. Per l’inutilità e lo spreco della tua morte. Per l’inutilità e lo spreco dei rapporti. L’inutilità e lo spreco del tempo, di quel che dico e che faccio.
Perdonami. Perdonaci.