Ci portava mia zia, che era l’unica che non lavorava.
Partivamo nel primo pomeriggio e scendevamo a piedi. Lei davanti e sei bambini urlanti dietro che scendevano la collina tagliando per i campi.
Già il viaggio era una festa: si andava al Trebbia.
Si andava a fare il bagno sotto il ponte o vicino al mulino, che c’erano i sassoni da cui si potevano fare i tuffi.
E l’acqua era gelata, i sassi scivolosi e non ci si poteva stendere a prendere il sole perché non c’era altro che ciottoli lì attorno. Una festa.
La zia teneva il conto del tempo: non si entrava in acqua se non erano passate tre ore dal pranzo. Poi sedeva all’ombra su un sasso grosso con il suo grembiule a fiori abbottonato davanti e ci curava mentre noi entravamo e uscivamo dal fiume in continuazione.
E quando lo diceva lei si usciva tutti dall’acqua, ci si toglieva il costume bagnato, si infilavano le mutande e si tornava a casa, scarpinando per i campi, in salita fino a casa.
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PINZIMONIO. LA GENESI.
Quando ero piccola vivevo in casa coi miei nonni. Era un appartamento al quarto piano, senza ascensore.
La cucina era così piccola che a tavola non ci stavamo tutti e la nonna mangiava appoggiando il piatto sul ripiano dei mobili; c’erano solo due stanze da letto e io dormivo in camera coi miei e sul divano in sala non c’era mai posto così guardavo la televisione in bianco e nero seduta su una sedia. Eppure per me era una casa bellissima. Non ero mai sola.
E c’era il nonno Nino. Diceva che io ero il suo cestino di fiori.
Ricordo battaglie con i ferri da calza in corridoio, io che attaccavo e lui che si difendeva, e la nonna che mi insegnava a fare il mezzo punto. E poi ricordo la primavera. Perché quando arrivava maggio ce ne andavamo in campagna, nella casa dove era nato mio padre, e stavamo lì fino a novembre.
Io, la mamma, il papà e i nonni.
E il nonno Nino era nel suo regno. Maglia di lana anche ad agosto e camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, si sedeva sui sassi davanti alla conigliera e dominava l’aia. Lui lì aveva lavorato la terra, accudito le bestie, cresciuto quattro figli. E adesso aveva me, il suo cestino di fiori.
Nella casa dei nonni non c’era il bagno e la nonna scaldava l’acqua sulla stufa a riempiva una tinozza di plastica azzurra per lavarmi.
Quella casa di sassi racchiude tutti i più bei ricordi della mia infanzia.
La mattina il nonno beveva il vino rosso nella scodella e mangiava i peperoni in pinzimonio. Metteva il sale nella tazza del latte e poi aggiungeva l’olio, mi prendeva in braccio e mangiavamo i peperoni crudi. Rossi, verdi o gialli li tagliava a strisce e pocciavamo insieme. Erano la cosa più buona del mondo.
Poi una volta, avrò avuto cinque anni, devo avere esagerato e ho vomitato un giorno intero. La nonna ha dato un sacco di nomi al nonno e la mamma, quando è tornata dal lavoro, ha messo il broncio.
I peperoni al mattino non me li han fatti mangiare più. E per protesta non li ho mangiati più in assoluto.
L’anno dopo è nata mia sorella, han fatto il bagno nuovo nella casa vecchia, han cominciato a ristrutturare il fienile per farci quattro appartamenti per la mia famiglia e quelle dei miei zii. Ma questa è un’altra storia.
Insomma, quando sono andata a fare la lista di nozze e mi han proposto il servizio da pinzimonio io non son stata capace di dire di no. Un piatto per le verdure e sei piccole ciotole decorate con verdurine colorate. Inutile dire che non l’ho usato mai.
Perché il pinzimonio si fa nella tazza del latte, si mette il sale e poi si aggiunge l’olio e si deve pocciare con qualcuno a cui si vuole molto bene, possibilmente di mattina.
PEZZI/03
Ma no, non è che ci provo con tutte le ragazze. Non con tutte, almeno. Solo con quelle belle. Con quelle belle, prof, sì che ci provo, ci provo subito!
Perché?!
Come, perché!
Ma perché è tardi, prof, c’ho poco tempo.
Ho diciott’anni, prof. Mio papà a diciott’anni già lavorava, sapeva già cosa avrebbe fatto per tutta la vita.
A vent’anni era già sposato, l’anno dopo sono nato io, l’anno dopo ancora è nato mio fratello Andrej.
Quando è venuto in Italia, papà aveva ventiquattr’anni, una moglie, due figli e era già un bravo muratore.
E adesso papà mi dice di sbrigarmi.
Perché sono ancora in quarta, mi manca un anno prima di finire ‘sto cavolo di scuola e poter andare a lavorare.
Quando avrò finito avrò quasi vent’anni. E mi dovrò sposare, prof.
Ma se non mi do da fare, se non trovo una donna bella che mi sposi e arrivo a venticinque anni, a venticinque anni si è vecchi, prof, a venticinque anni è troppo tardi.
A venticinque anni, se non sei già sposato, ti danno la prima che capita. Si fa un matrimonio combinato, e ti danno quel che c’è. Quello che resta. Ti danno una donna che non ha voluto nessuno, che non si è presa nessuno. Ti danno gli scarti.
E io mica voglio uno scarto, voglio una moglie bella. E allora mi devo dar da fare.
Oh, in Macedonia è così.
BRAVI NOI
Diciannove anni fa, più o meno a quest’ora, siamo andati nella casa nuova e abbiamo lasciato le chiavi agli amici perché potessero riempirci il letto di riso e tappezzarci le pareti di carta igienica.
Ti ho chiesto se avevi chiamato il ristorante e tu hai risposto “sì, è tutto a posto”.
Poi sono tornata a casa dei miei ho messo in ordine le cose e i pensieri, come faccio sempre, e ho dormito col mio bambino nella stanza che tante volte ci ha visto abbracciati.
“Mamma, domani ci sposiamo.” “Ci sposiamo, sì.”
Del mattino dopo non ricordo molto. Marco che correva su e giù per il corridoio, la sarta col vestito, il parrucchiere che non mi diceva l’ora perché eravamo paurosamente in ritardo.
Poi Daniela che si è messa a piangere e tuo cugino che si vantava dell’alettone montato sulla macchina che mi doveva portare in chiesa. Il bouquet sbagliato, mio padre che mi aiutava a scendere e mi diceva quanto ero bella. Tu che all’altare mi chiedi in dialetto come va. E tanta gente, davvero tanta; la gente che ci ha accompagnato in quella storia strana che è stata la nostra vita. Ognuno a suo modo e comunque tutti lì.
Marco che dorme tra noi due nel tragitto in macchina, gli zingari accampati davanti al ristorante, il nostro tavolo che non c’era e tutto il tempo in piedi a parlare coi parenti.
Ricordo la stanchezza, l’acconciatura che non riuscivo a sciogliere, tuo fratello che è rimasto fino a tardi a farci compagnia seduti sui divani nuovi.
Domani sarà un’altra volta il 25 aprile.
Nonostante tutto siamo stati bravi. Davvero.
PEZZI/02
Non è bello venire a sapere che tuo figlio fuga da scuola.
Non è bello scoprirlo alle udienze, dagli insegnanti. Fai la figura del fesso, ti senti un fesso. E ti senti ingannato da quello là, che poi quando torno a casa facciamo i conti.
Non è bello, e ti senti fesso, e allora urli, lo minacci, e gridi e gli chiedi dov’è che è andato tutti quei giorni.
Al bar, ti dice.
Al bar, gli ripeti. E a far cosa, al bar tutta la mattina?!
– Con gli amici, con quelli che fugano con me.
– Va bene, ma a far cosa, cristo, a fare cosa?!
– A giocare.
– …come, a giocare.
– A giocare, papà.
– Ma a cosa.
– Dipende. A carte, con le macchinette. Dipende.
– A carte. Con le macchinette.
– Già.
– Ma a soldi.
– Papà…
– Taci! A soldi?
– Sì.
– …e quanto hai perso.
– Tanto, papà.
Che già ti senti fesso, e adesso la vergogna, la vergogna di tuo figlio che deve soldi a mezzo paese, alla parte peggiore del paese, ai perditempo del bar, a quelli che al mattino sono al bar a perdere tempo, a quelli che al mattino manco vanno a lavorare, manco hanno una famiglia, e se hanno una famiglia se ne fregano, vanno a giocare al bar, a quelli lì mio figlio deve un sacco di soldi…
– E tu adesso glieli ridai, i soldi.
– Ma come faccio, papà…
– Cazzi tuoi! Tu adesso vai a scuola e lavori, da oggi vai a scuola e lavori, e poi studi e poi lavori e studi e lavori finché non hai pagato tutti i debiti fino all’ultimo centesimo.
…che poi mio figlio non ha lavorato neanche un giorno.
Perché due giorni dopo son tornato a casa e lui mi ha detto che aveva pagato tutti i debiti.
– Ma come hai fatto, che non ti ho ancora trovato uno straccio di lavoro?!
– Papà, ho vinto.
– Come, ho vinto.
– Ho vinto. Ho giocato a carte, e ho vinto. Un bel po’ di soldi, un sacco di soldi. E ho pagato tutti i debiti, papà, non devo più una lira a nessuno.
Professore, non ti dico il peso. Il peso che mi si è tolto. Ero incazzato, sì, che quel cretino aveva giocato a carte, e poteva perdere ancora, e mandare sua madre nei matti e a me in galera, perché l’ammazzavo, ma era più la contentezza dell’essermi tolto il peso.
“Non gioco più a carte, te lo prometto”: così mi ha detto. E da allora non ha più fugato, vero prof? Ecco, lo dice anche lei, è vero.
È andata bene.
Che poi un po’ mi dispiace che non abbia dovuto lavorare neanche un giorno per pagare i debiti, che secondo me così imparava cosa significa farli su, i soldi.
L’AMICA DI TUTTA UNA VITA
Questa notte ho perso un’amica.
Prima di essere mia amica era amica di mio padre e di mia madre.
Era amica dei miei nonni.
Poi è stata amica di mio marito e dei miei figli.
E’ stata l’amica di una vita.
Era una donna asciutta.
Non ti diceva che eri bella o che eri stata brava. Ti stringeva forte la mano e c’era dentro tutto.
Era una donna grande, con il grembiule stretto in vita.
Una che sapeva voler bene anche ai tuoi sbagli, senza negarli mai.
Ti guardava e sapevi sempre cosa pensava.
Quando in questi anni mi parlava di mio padre, delle cose che non sapevo di lui, di cose che lui a noi non aveva detto ma che a lei aveva confidato, me lo vedevo davanti, così com’era.
Perché lei conosceva davvero le persone e ne tratteneva l’essenza.
E di lei era l’essenza che colpiva. Quel suo stare nel mondo senza fronzoli, senza maschere.
Quella forza che mai l’ha abbandonata in una vita che non è stata facile.
E nonostante tutto quando rideva lo faceva con gusto.
Ero seduta al tavolo della sua cucina dopo l’intervento che ha segnato l‘inizio della fine del mio papà.
Correvo lì nei mesi in cui avevo smesso di parlare con mia madre.
L’ho costretta ad ascoltare i miei rancori, le mie delusioni, le paure.
In quella stanza ho trovato tante volte rifugio.
Nella sua casa. Quella che lei aveva visto costruire e di cui conservava in testa lo schema degli impianti e la scadenza delle manutenzioni. Una donna pratica.
Per lei neanche morire è stato facile.
Sempre presente. La mente vigile in un corpo stanco che ha combattuto per 96 anni.
Ora riposa. E fuori c’è il sole.
Un’amica da sempre.
Non si perde un’amica così.
PEZZI/01
Ho perso il papà che avevo sedici anni.
Una volta gli ho detto che mi ammazzavo. La sberla che mi ha dato me la ricordo ancora adesso.
Era la prima volta che mi metteva le mani addosso, ed è stata anche l’ultima.
Qualche anno prima suo fratello, mio zio, si era suicidato. Ma io non lo sapevo, me lo disse mia madre qualche tempo dopo la morte di papà.
Un tumore fulminante al fegato.
(È che in questo lavoro se ne sentono tante. Alcune leggere, altre pesanti. Alcune piccole, altre grandi. Altre, grosse. Talvolta troppo. Allora ogni tanto vien voglia di scaricare, di deporre il peso, di metterne giù almeno una parte. Non per disfarsene, no. Solo, per guardarlo con un minimo di distacco e recuperare un po’ di oggettività. Tanto per tirare un attimo il fiato. E poi riprenderselo sulle spalle, e condividerne almeno un atomo.)