C’è questo posto, in Olanda, dalle parti di Amsterdam, De Hogeweyk, dove stanno solo persone affette da demenza senile. I pazienti vivono una vita normale, non sanno di essere in un posto deputato alla loro cura. Medici, infermieri, inservienti, vivono anche loro nel paese e interagiscono coi pazienti in abiti borghesi, come fossero personaggi di un gigantesco Truman Show. Le ambientazioni delle case sono diverse a seconda dell’esperienza di vita del malato: case operaie, ambientazioni aristocratiche, atmosfere antillane o indonesiane per chi proviene dalle ex colonie. La cura praticata è la Reminiscence therapy: i pazienti raccontano di continuo episodi del loro passato e questo li provvede di un senso di continuità confortante. Il risultato è una vita più attiva ed un minor bisogno di cure mediche.
Non so, è una cosa allo stesso tempo malinconica e triste, civile e piena di umano rispetto. Una cosa molto olandese, ecco.
…certo, tristezza e malinconia insignificanti in confronto a quelle che mi invadono nel venire a conoscenza dell’esistenza della minoranza linguistica croata in Molise: una sparuta minoranza, circondata, com’è noto, dal nulla.
È così. Arrivi a cinquant’anni, ti credi esperto del mondo e de li vizi umani e del valore, e invece. Chissà quanti tizi non ho mai sentito nominare ma, ciascuno nel suo, hanno contribuito al progresso umano ben più di quanto potrò mai fare io portando in giro per il mondo la mia massa grassa. Von Foerster, per esempio. (– Cioè, NON SAPEVI CHI ERA VON FOERSTER?! Ma co… – SCOIATTOLO!) Von Foerster, dicevo. Bella questa cosa delle macchine banali e non banali. Una macchina è banale, dice il Von, se è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra input e output. Se, dato uno stimolo A, produce sempre la risposta B. Se fa sempre la stessa cosa, insomma. Schiaccio il pulsante, e vien fuori l’aria calda. Giro la chiave, e si accende il motore. Metto la panna nella carbonara, scoppia un flame su internet. Posto un gattyno, prendo trenta Like. È un sistema deterministico, e quindi prevedibile. Ma ci sono anche le macchine non banali: tra input e output la relazione è diversa. Dato lo stimolo A, non sempre rispondono B. Il fatto è che la risposta che viene data è frutto delle risposte date in precedenza. Anche queste macchine sono deterministiche: è una serie di stati interni a causarne il comportamento. Ma dato che io posso vedere solo l’input e l’output, posso ipotizzare gli stati interni solo da quanto osservo dall’esterno. E così le macchine non banali sono imprevedibili. E poco utili nella pratica, ovvio. Sono anni che schiaccio il pulsante e vien fuori aria calda, ma può essere che stamattina io schiacci il pulsante e venga fuori aria fredda, o non venga fuori niente: a quel punto è improbabile che mi limiti a constatare Toh!, ma guarda che caso strano, il mio phon si è trasformato in una macchina non banale. Dirò che si è rotto, e lo aggiusterò o lo sostituirò. In pratica: se una macchina banale comincia a funzionare in modo non banale, corriamo subito ai ripari per banalizzarla. Tutto il rapporto uomo-natura è in fondo improntato a un costante tentativo di banalizzazione: la natura di suo non è per niente prevedibile, anzi è piuttosto caotica; ma l’uomo è capace di estrapolarne delle regolarità, ovvero di banalizzarla, traendone vantaggio (non è che occorra conoscere tutti gli stati interni della macchina biologica per inventare l’agricoltura e l’allevamento). Ma se c’è un campo in cui, dice il Von Foerster, quest’opera di banalizzazione è nociva, quello è il campo dell’istruzione: la scuola è un costrutto mirato a banalizzare quelle macchine non banali che sono i bambini, o in generale i ggiovani. La risposta di un bambino è sempre imprevedibile: la scuola opera perché alla domanda dell’insegnante il bambino fornisca la risposta corretta, ossia quella attesa, prevista e prevedibile. A stimolo A deve corrispondere risposta B, appunto. I test di valutazione sono la macchina di banalizzazione perfetta: sottopongono domande di cui si conosce già la risposta a persone da cui si attende la risposta corretta. Più alto è il punteggio che ottieni in un test, e più ti sei banalizzato. Ossia, digiamolo, sei sotto controllo. Ora basta, che devo andare a esercitarmi a fare un po’ di test per la preselezione del concOH WAIT!
Il mio, personalissimo WTF?! del giorno consiste nella scoperta del fatto che non è necessario che le scuole paritarie abbiano, propriamente, un dirigente scolastico. Un preside, per capirci. Proprio così. Innanzitutto si parla non di dirigente scolastico, ma di coordinatore didattico. E l’impressione è che la legislazione, nel susseguirsi di circolari e note esplicative dal 2000 in poi, si sia fatta sempre più nebulosa e imprecisa, fino a delineare una situazione in cui non solo non è assolutamente necessario che alla guida di una scuola paritaria vi sia un dirigente scolastico, ovvero qualcuno che abbia passato un concorso per dirigenti; ma non è nemmeno strettamente necessario che vi sia un insegnante munito di abilitazione! (E qui il mio WTF?! raggiunge proporzioni mastodontiche, oserei dire siffrediche). Le varie circolari in fondo si limitano a dire che il coordinatore didattico: a) nelle scuole secondarie inferiori e superiori, deve essere provvisto di laurea o di titolo equipollente (abilitazione all’insegnamento: non pervenuta); b) deve avere titoli culturali o professionali non inferiori a quelli previsti per il personale docente (ancora una volta, l’abilitazione non viene espressamente nominata; ma – si dirà – c’è un riferimento esplicito ai “titoli professionali” del docente, no? Vero, ma la vedi quella “o” ? Ah, la diabolicità di quella “o”…); c) deve essere munito di esperienza e competenza didattico-pedagogica adeguata (e qui cascherebbe l’asino; peccato che misuratori di competenza pedagogico-didattica non ne abbiano ancora inventati); d) e comunque abbiamo anche una nota ministeriale che recita testualmente: Precisato che l’espressione “dirigente scolastico”, propria delle scuole statali e conseguente al relativo ordinamento del personale, non determina alcun obbligo di equiparazione nelle scuole paritarie… E quindi. Per carità, una logica c’è: le scuole paritarie hanno come principale referente non tanto il preside, ma il cosiddetto gestore. Per intenderci: stiamo parlando dell’ente ecclesiastico, o della Fondazione, o della famiglia di privati che possiede e gestisce l’istituto. È il gestore ad essere il garante dell’identità culturale e del progetto educativo della scuola, ed è l’unico ad essere ultimamente responsabile della conduzione dell’istituzione scolastica nei confronti dell’Amministrazione e degli utenti. Tuttavia, nel momento in cui le condizioni per il riconoscimento della parità, che per carità non vi sto ad elencare, prevedono nei fatti che l’istituto paritario funzioni in un modo del tutto identico a quello della tradizionale scuola cosiddetta “pubblica” – dagli organi collegiali al Pof, dalle attività di programmazione all’autonomia scolastica, dai millemila progetti alla gestioni minuta e quotidiana delle questioni burocratico-amministrative, dalla gestione dei rapporti coi docenti e con le famiglie all’attenzione alla qualità della didattica -, non si vede come sia possibile per chi non abbia, non dico una qualifica dirigenziale, ma almeno un’abilitazione all’insegnamento ed un minimo – un minimo! – di esperienza scolastica star dietro a tutto questo senza essere un mero pupazzo di gomma. E insomma, boh.
Il grande rottamatore. È il modo in cui Paasilinna, in Piccoli suicidi fra amici, si riferisce a Dio. Unite i puntini e fate voi le battute su Renzi, il renzismo e il parallelo col berlusconismo dell’Unto del Signore, che qui non possiamo pensare a tutto noi.
E già che ci siamo (ma qui non so se è una cosa che ho imparato oggi o un ricordo che viene a galla tra le nebbie dell’Alzheimer incipiente, come si scherzava nei commenti qualche giorno fa, e comunque scusate l’ignoranza politica): la prima Leopolda, quella del 2010, porcoggiuda, ma da chi fu organizzata? Sì, da Renzi, certo, ma insieme a chi? Ricordo che c’era un altro. Civati? Possibile?!
In caso di mobbing, l’onere della prova ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro spetta al lavoratore. Uhm.
Per Gardner l’intelligenza è multipla, ed è un’abilità: più precisamente, un’abilità con cui risolvere un problema o con cui realizzare un prodotto che ha valore in uno o più contesti culturali. Quest’ultima sottolineatura è bellissima. Essere in grado di trovare l’acqua nel deserto del Kalahari è un’abilità che nel boscimano denota una spiccata intelligenza. Da noi, i 67.000 followers di Gasparri su Twitter o le 100 milioni e rotti di visualizzazioni del Pulcino Pio su YouTube, denotano un’intelligenza spiccata in Gasparri e nell’autore del Pulcino Pio. Stacce. Se non ti piace, è inutile che te la prenda con me, con Gasparri o col Pulcino Pio: se problema c’è, sta in quel che il nostro contesto culturale considera valore.
I test d’intelligenza vengono tuttora considerati validi. Pensavo che da mo fossero stati ridotti a passatempi estivi o a rubrica di rotocalco o di Cioè, e invece. Per esempio, la quarta e ultima versione del WISC (WISC-IV,Wechsler Intelligence Scale for Children) è del 2003 (introdotta in Italia nel 2012), quella del WAIS (WAIS-IV,Wechsler Adult Intelligence Scale) è del 2008 (in Italia dal 2013). Certo, questi test sono una versione estremamente evoluta, e modificata, dei vecchi testi di Binet e Simon, che passarono attraverso Terman, che divennero scala Stanford-Binet, e che generarono i test Alpha e Beta dei reclutamenti per la prima guerra mondiale che al mercato mio padre comprò. Ma sono comunque roba di un secolo fa, almeno come concezione di fondo. Eppure sembra che l’idea di misurare l’intelligenza di un individuo attraverso domande, test e quiz sia ancora del tutto accettabile. La mia ignoranza si perplime, e constata.
Il burro fa male. E fin qui. Ma la cosa interessante è che ne abbiamo la conferma ufficiale grazie ad una ricerca commissionata dalla Danish Dairy Industry, che di burro ne produce qualche tonnellata. Insomma: la Danish Dairy, un mostro che riunisce 34 produttori, una potenza capace di sottoporre a trasformazione la bellezza di circa 4.9 billion kg milk for high-quality products (!!!), ha pensato bene di sovvenzionare uno studio approfondito sulle qualità del burro, ovviamente allo scopo di incrementarne l’appetibilità, e quindi le vendite: il risultato è stato uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition in cui si sostiene che even moderate levels of butter consumption could result in higher cholesterol. At the very least, the study showed that butter raises blood cholesterol levels more than alternatives such as olive oil. E insomma, oggi ho imparato che è possibile, che possono esistere ricercatori capaci di fare il proprio lavoro obiettivamente e onestamente, senza sottostare agli interessi di KI LI PAKA!!1!
È da un bel po’ che non vado alla Lidl, e così non ero a conoscenza di quel che descrive La Due Dodici nel suo stato di Feisbuc. Per chi non potesse leggerlo, il fatto è che alcune catene di supermercati (e in Italia la prima è stata proprio Lidl) si sono stancate di subire in silenzio il furto di decine di carrelli ogni mese, con un danno che pare aggirarsi tra gli 80 e i 120 euro a pezzo. Hanno così munito i carrelli di un particolare tipo di ganascia che scatta automaticamente quando il carrello si allontana oltre una certa distanza dall’uscita del supermercato, che so, al di là del limite del parcheggio. E così l’incauto avventore che, più che tentare di fottersi il carrello, è uso utilizzarlo per portarsi la spesa fino a casa, va incontro a inaspettati e repentini schianti contro il maniglione nel momento in cui si trova ad oltrepassare l’invisibile confine. La Due Dodici dice che starebbe tutto il giorno a guardarli. La capisco, e provvederò a recarmi al più presto alla Lidl più vicina per unirmi a questa forma di umarellismo spinto e un po’ bastardo.
Ieri notte sono andato a prendere il ragazzo a Orio al Serio, di ritorno da Valencia. Viaggiare di notte, in piena estate, sul tratto Piacenza – Brescia dell’A21 è quasi come guidare in mezzo a una nevicata sul Pordoi: insetti di tutte le fogge e dimensioni, vorticanti come fiocchi di neve, spuntano di continuo dal nulla intersecando i fasci dei fari e vengono a schiantarsi sul parabrezza, sul cofano, sugli specchietti, dappertutto, al ritmo di centinaia al minuto, o comunque di svariate decinaia. Moscerini, moschini, farfalline, cavallette, locuste, cammelli. Di tutto. Un continuo crepitare e scoppiettare. Ho la macchina conciata come se fossi passato sotto uno stormo di gabbiani dall’intestino debole. Che poi, tra la quantità incredibile di insetti e la fantasmagoria di puzze che si avvertono tra Cremona e Manerbio, credo che i piedi neri del bambino siano proprio l’ultimo dei problemi di Ghedi.
Se stai pedalando in salita (e hai cinquant’anni, e non sei mica lì a fare del professionismo, ma sudi e ansimi perché in qualche modo fare esercizio ti fa bene e comunque andare in bici ti piace un sacco), a comandare sono le gambe, il ritmo cardiaco e l’ossigenazione, non l’orgoglio. Se gambe cuore e polmoni dicono Cazzo, fermati!, tu ti fermi, punto. Poi magari riprendi. Che gambe cuore e polmoni hanno sempre ragione, l’orgoglio produce solo un mucchio di telefonate al 118 che si sarebbero potute evitare facilmente.
Forse ho capito la differenza fra rating e ranking, in riferimento alle scuole e ai loro risultati (qualunque cosa siano i risultati di una scuola): il ranking dovrebbe essere una graduatoria discreta nella quale ciascuna scuola occupa un posto, laddove il rating mi pare essere l’inserimento della stessa scuola in una fascia di valutazione di ampiezza convenzionale. Non chiedetemi di più, non obiettate, non contestate, è una distinzione che funziona quando rispondo ai test ministeriali e tanto mi basta, almeno per ora.
Ho finalmente trovato un Cinque Stelle che mi sta piuttosto simpatico MA, COM’È COME NON È, ORA NON C’È PIÙ!
Credevo che il Monte Bianco fosse stato scalato, ad essere generosi, nel milleottocentoequalcosa. E invece, grazie al doodle di Google di oggi, scopro che la prima scalata è del 1786. Non mi capacito. Mi immagino uomini dell’ancien regime, in calze di lana, sciarponi e parrucca, affrontare un’impresa che io oggi eviterei non fosse che per risparmiarmi la spesa dell’attrezzatura. Invece questi, hop hop, e vanno su vestiti da honnête homme di fine Settecento. Nel 1808 va su perfino la prima donna, in gonnellona plissettata e stivali fino alle ginocchia. Un altro pianeta.
Oggi è la storia a farla da padrona. Grazie al ClassiCult del Fraccalvieri, leggo la notizia della scoperta del monolite sommerso al largo della Sicilia, a metà strada da Pantelleria. Là dove oggi non c’è che acqua a perdita d’occhio, i Siciliani del Mesolitico drizzavano menhir da decine di tonnellate. Stiamo parlando di undicimila anni fa. Nemmeno erano nati i quadrisavoli degli spermatozoi del primo celta padano! I romani non esistevano nemmeno a livello di antenato di Enea, Troia era ben lungi dall’essere una città e già i siciliani modellavano pietroni megalitici. Sono undicimila anni che lavorano, ci credo che oggi sembrano prendersela un po’ comoda: è stanchezza. Unita alla saggezza e al disincanto di chi era al centro di una civiltà dalle caratteristiche omogenee sparsa per buona parte del Mediterraneo in un’epoca in cui il Mediterraneo, come lo conosciamo oggi, nemmeno esisteva.
Non tutti nella capitale nascono i fiori del male. Qualche testa di minchia senza pretese l’abbiamo anche noi in paese, e così stamattina scopro che a meno di due, trecento metri da casa mia un esemplare rappresentante della categoria ha passato la notte a dar fuoco alle automobili. Quattro, per la precisione. La Kia l’ho subito spostata in garage, penso che stanotte chiederò al figlio di dormire nella 106.
Il gioco 20 Questions, nelle sue versioni da tavolo e elettronica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosino e stucchevole), nasce paro paro da una strategia pedagogica (per la verità, alle lunghe piuttosto noiosina e stucchevole) inventata dal solito Bruner per stimolare negli alunni l’apprendimento per scoperta. Agli allievi veniva proposto un problema, e avevano a disposizione appunto venti domande per trovare la soluzione. La strategia giusta è partire dalle domande più generali per poi restringere progressivamente il campo, chevvelodicoaffà.
Il tutor è colui che affianca nell’apprendimento o nella scoperta il soggetto in apprendimento: lo sanno pure li cani, e quindi lo sapevo pur’io. Ma come si chiama il soggetto in apprendimento? Forza, potete farmi venti domande.
…
Eh eh. Si chiama tutee.
Esiste un bug che si chiama white screen of death. In pratica, tu ci hai un blog, entri nell’amministrazione col tuo username e la tua bella password, e lì trovi il nulla. Cioè, io trovavo a lato la serie di opzioni e di funzioni, ma a cliccarci sopra non succedeva nulla: il resto dello schermo restava, appunto, bianco. Ma se hai una nipote geniale, esperta di informatica e al nono mese di gravidanza (così che non possa fuggire da nessuna parte, grazie Caterina :)), la sventurata può farti la diagnosi, il backup, l’aggiornamento all’ultima versione di Wp e restituirti il blog spolverato, lindo e funzionante come non mai, ed è subito, ancora e sempre, 2003!
Esistono prodotti specifici per lavare le tende. Nella mia testa il lino era lino, il cotone cotone, la lana lana. Il colorato era colorato e il bianco bianco. E invece no: molto dipende anche dalla forma, non solo dalla sostanza. Il cotone a forma di lenzuolo richiede un prodotto diverso dal cotone a forma di tenda.
Le nostre percezioni sono influenzate dai nostri pregiudizi e dalle nostre aspettative: e fin qui. Ma non immaginavo fino a che punto lo siano. Bruner fa un esperimento. Prende un gruppo di ragazzi poveri, un gruppo di ragazzi ricchi ed un terzo gruppo di controllo, non importa se ricchi o poveri. A tutti e tre i gruppi viene dato un compito: devono paragonare le dimensioni dell’oggetto che viene loro messo in mano con quelle di un fascio di luce circolare proiettato su una scatola. Tramite una manopola possono variare le dimensioni del fascio di luce fino a farlo coincidere, a loro parere, con quelle dell’oggetto che hanno in mano. Ai primi due gruppi viene data in mano una moneta; al gruppo di controllo un disco di cartone, o di legno, non so. Risultato: il gruppo di controllo più o meno ci becca; il gruppo dei ragazzi ricchi tende a sovrastimare le dimensioni della moneta fino al 30% del diametro effettivo; i ragazzi poveri tendono anch’essi a sovrastimare il diametro della moneta, ma fino al 40% del diametro. Bruner conclude che essere ricchi influenza la percezione che si ha del denaro; essere poveri ancora di più; dei dischi di cartone non gliene frega nulla a nessuno. (Ed è interessante fra l’altro rilevare che quanto meno te ne frega di una cosa tanto più è esatta la percezione che ne hai; e viceversa, ovviamente.)
Le Assicurazioni Generali stanno sperimentando una nuova strategia di marketing. Mi hanno mandato una lettera commerciale nella quale mi invitano a sottoscrivere uno dei tre prodotti assicurativi elencati per poter partecipare all’estrazione di una Smart. L’assicurazione a premi ancora non l’avevo vista.
Andare al funerale di un bambino di dodici anni insegna sempre parecchio. Ma non ne voglio parlare, qui. Non mi pare il caso. Semmai un’altra volta, a tu per tu, davanti a una birra. O a qualcosa di più forte, che è meglio. Okay? Okay, deal.
I pompieri che stendono i panni in shorts sul balcone, qui, davanti alle finestre della mia cucina, appartengono ad un’altra specie, non umana.
Il cantante dei Joy Division s’è ammazzato prima dell’uscita del loro secondo e ultimo disco. Sì, è una cosa del 1980, e io la scopro ora, e allora? Eh, oh.
È inutile che Caprotti abbia fatto mettere un gabinetto in ogni negozio Esselunga. Qualcuno riesce comunque a vomitare a dieci metri scarsi di distanza dalle porte del cesso, proprio davanti ai due portelli automatici per l’ingresso dei clienti.
C’è questo articolo, no?, il 50 della Legge 35 del 4 aprile 2012 (che converte in legge il DL 5 del 2012), che prevede la costituzione di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, occhei? Bene. L’idea è bellissima: più scuole si mettono assieme e si uniscono per gestire in maniera ottimale le proprie risorse, umane, strumentali e finanziarie. Ne deriva la possibilità di definire un organico di rete: i docenti, invece di essere assegnati ad un unico istituto, sono assegnati a tutti gli istituti che compongono la rete, in funzione dei progetti ai quali partecipano e che vengono condivisi fra le scuole, soprattutto per le questioni legate all’integrazione scolastica ed all’inclusione. Figata!, bene. Ma quel cretino d’un articolo alla fine dice: tutto ciò, nei limiti previsti dall’art. 64 del DL 112/25 giugno 2008, convertito, con modificazioni, dalla L 133/6 agosto 2008, e successive modificazioni. Tradotto: nei limiti fissati dalla Riforma Gelmini, che ha come ritornello la “riduzione complessiva degli organici del tot %”. Ma vaffa, va’.
Un americano può chiederti l’amicizia su Feisbuc perché gli è piaciuto un casino un filmato in cui un tizio suona Comfortably Numb su un iPhone, e visto che ‘sto tizio si chiama Leonardo Muccari lui pensa bene di chiedere l’amicizia a tutti quelli che hanno un nome simile per cercare il tizio e fargli tanti tanti complimenti. Occheione.
(Mi sa che ne faccio una rubrica quotidiana. Che è bello, a mezzo secolo, scoprire che ogni giorno ne impari una nuova. E quindi)
COSE CHE HO IMPARATO OGGI
Vygotskij appartiene a quella serie di genî che, ‘tacci loro, crepano troppo presto (38 anni, ma dai!). La sua teoria della zona dello sviluppo prossimale è una delle cose allo stesso tempo più semplici e rivoluzionarie che la storia della pedagogia abbia mai affermato.
Dicheno che a non far dire le parolacce agli studenti, e a sorvegliare il loro linguaggio, e a invitarli ad usare espressioni formalmente corrette, il loro rendimento migliora. Dovrò cambiare completamente metodo e approccio, cazz… ehm, mannaggia.
Sono troppo grezzo e ignorante per apprezzare alcune cosette. Per dire, le Kantaten di Bach mi paiono tutte uguali e in fondo in fondo madò che rottura di palle.
La vita in fondo è semplice. C’è chi per essere contento gli basta solo che qualcuno metta un like sotto la sua foto di un limone.
Prima di dire che un ragazzo che evidenzia certi problemi ha un Dsa, l’insegnante deve attivare un percorso di recupero sistematico e mirato ai bisogni di quel ragazzo; solo se il percorso fallisce e i problemi continuano a manifestarsi si invita la famiglia a contattare uno specialista. Insomma, pensa te, non si tira a indovinare e non è una questione di “sensibilità”.
C’è gente che non aveva idea di cosa significasse il marcire delle patate in casa. C’è gente che forse ne ha idea o forse non ne ha idea, ma che comunque è stata testimone di esperienze domestiche di decomposizione che neanche i netturbini di Calcutta. E te le racconta, il/la maledetto/a, con dovizia di particolari.
Alla riga 5, la mia bisnonna Elisabetta, 33 anni. Alla riga 6 sua figlia Maria, 16 anni. Alla riga 7 suo figlio. Mio nonno, Vito. Tre anni. Rosario, il mio bisnonno, stava già a Brucculino e li aspettava. Non fatico a appiccicare sui visi di chi sbarca a Pozzallo o a Lampedusa quelli di Elisabetta e di Maria, del piccolo Vito. Anche se in Italia, nel 1903, non c’era guerra. E c’era, bene o male, uno Stato. Ma c’era anche miseria e fame. E allora si partiva. Perché se si ha fame, Cristo, si ha il diritto di partire. Stipati in 1100 sulla Sicilian Prince, tutti in terza, ché la prima tiene posto solo per venticinque ricchi. Quindici giorni di traversata. Chissà che paura, du fimmine e chidd’avutru, nicareddu nicareddu.
Paura o no, si andava. Si aveva da andare. Dal 1875 al 1913, quasi quattordici milioni. Su trentatrè. Che strana gente. Che strana specie di gente, ad affrontare l’oceano per una speranza di bene, per il sogno di un di più. Che strana specie, poi, a fare presto ad abituarsi al comodo, e a dimenticare. Che strana specie che è, la specie umana.