IL PENSATOIO

Oggi ero lì che ricordavo le vacanze passate cercando le mie foto coi capelli corti. Così mi sono accorta che di un sacco di ricordi non ho alcuna documentazione fotografica al di là delle immagini ben impresse nella mia mente. Allora sono andata a spulciare nel vecchio blog. E ho trovato cose che mi han fatto ridere e commuovere, cose che avevo scritto e dimenticato, vivide immagini raccolte giorno dopo giorno per anni.
Un tesoro, il mio.

Io non lo so se vale riciclare ma quello che cercavo era lì, depositato una notte del novembre 2005.

Era una pensioncina in montagna, una delle poche vacanze che ho fatto con la mia famiglia.
Avevo nove anni, i capelli corti e le ginocchia sbucciate; mio zio diceva che avrebbe voluto un figlio come me, che da femmina avevo solo la Barbie ballerina.
Mi ero trovata un’amichetta, di cui non ricordo assolutamente niente se non che quel pomeriggio c’era anche lei.
La pensione era un piccolo edificio con poche camere al piano superiore, la sala da pranzo e la cucina a piano terra. In fondo al corridoio del primo piano c’era una porta finestra che si apriva su un piccolo balcone di servizio.
Quello era un buon posto, poco frequentato, e spesso andavamo lì a giocare.
Dalla ringhiera partiva un lungo filo che terminava legato ad un palo conficcato nel terreno; quelli dell’albergo ci stendevano i panni ad asciugare, ma quel pomeriggio non c’era niente di steso e la curva che la corda disegnava nell’aria era bellissima: dal balcone al prato, un invitante filo di ragnatela. L’idea era fantastica: scivolare giù appese a quella candida liana. E io ci provo.
Scavalco il parapetto e fin qui nessun problema; mi calo nel vuoto restando aggrappata con le mani alle sbarre della ringhiera e adesso viene il bello.
Per prendere il filo devo ruotare il busto e rimanere appesa con una mano sola; comincio a pensare che forse era meglio allenarsi un po’, prima di passare alla realizzazione del piano. Ci tento un paio di volte, ma inutilmente. Intanto l’amichetta si dà alla fuga e io, incapace di risalire, decido che non mi resta che scendere. Un volo di tre metri; un capolavoro. Allargo le braccia, mi piego sulle ginocchia in perfetto equilibrio; le piante dei piedi bruciano un pochino, ma non è niente a confronto del mio orgoglio ferito. Alzo la testa giusto in tempo per vedere la proprietaria della pensione in piedi, davanti alla finestra della cucina a piano terra che si mette le mani nei capelli e comincia a correre. Allora corro anch’io!
Quel che è successo dopo l’ho rimosso; mi vedo in braccio a mio padre che sorride, in camera coricata sul letto con mia madre che mi carezza la schiena. Ma forse sono altri momenti ed altri posti.
I miei figli dormono e mio marito è fuori; io sono qua che sorseggio un vino bianco, dolce e frizzante. Ora, ripensando a quella cosa, il filo bianco tra il balcone e il prato, sono ancora convinta che si poteva fare.
Non era impossibile passare nel verde dal blu lasciandosi scivolare.

TRACCE DI PIACENZA/4

Avversati ufficialmente dalla Chiesa, che condannava il prestito a interesse come peccato d’usura, i prestatori italiani erano ben conosciuti Oltralpe proprio con il nome di lombardi; spesso erano anche chiamati per analogia caorsini, dalla località di Caors in Provenza i cui abitanti erano dediti a questa attività. Sicché il termine lombardo o caorsino, perdendo connotazione geografica precisa, finì per indicare i presta denari di piccolo o medio cabotaggio insediati capillarmente nelle città o nei villaggi, distinti dalle agenzie delle grandi banche internazionali. Almeno al principio, tuttavia, il nome “lombardo” non era casuale o generico, poiché la maggior parte dei prestatori proveniva davvero da quella regione (comprendente gli attuali Piemonte, Lombardia ed Emilia) che nel Medioevo conservava l’antico nome di Longobardia o Lombardia: erano stati infatti piacentini, milanesi, chieresi, albesi e soprattutto astigiani a sviluppare l’attività creditizia, sicché Benvenuto da Imola, commentando Dante, a proposito degli abitanti di Asti scriveva attorno al 1376: “Pecuniosiores Italicis, quia sunt maximi usurarii”. Gli astigiani erano più ricchi degli altri perché più degli altri dediti all’usura.
L’attitudine agli spostamenti verso il mondo europeo da parte degli abitanti delle città della “Lombardia” è d’altra parte documentata fin dai secoli precedenti: pur tralasciando le tracce più antiche, conservate nei diplomi concessi dagli imperatori ai negotiatores delle città padane, sappiamo che i contatti con le aree europee di produzione di materie prime erano tenuti proprio dalle città dell’entroterra (“lombarde”, ma anche dell’Italia centrale), ben presto specializzate nel ruolo di mediazione fra i centri dell’Europa settentrionale e i porti mediterranei. Erano i lombardi delle città piemontesi, prime fra tutte Asti e Piacenza, ma anche toscani di Lucca e di Firenze ad affluire numerosi ai periodici incontri commerciali che dalla seconda metà del XII secolo si tenevano annualmente in quei centri della Champagne in cui confluiva la produzione francese e fiamminga.

R. Bordone, L’usura all’italiana. Mercanti e usurai italiani del Medioevo, Storia e Dossier 69, gennaio 1993, pp. 38 s.

TRACCE DI PIACENZA/3

Mentre il non expedit presupponeva, in linea di principio, un disconoscimento della legittimità dello Stato liberale, precludendo ai cittadini cattolici l’esercizio del diritto di voto (del resto riservato, sino al 1882, a una minima parte della popolazione), l’associazionismo cattolico godeva, in specie nelle aree settentrionali e centrali del Paese, di un seguito notevole, e trovò un fattore di coagulo nei periodici congressi dei cattolici italiani, avviati nel 1874 a Venezia, e nella formazione di comitati parrocchiali e diocesani. Essi produssero nel 1875 un organismo di coordinamento nazionale, l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici, che per circa un trentennio costituì l’asse organizzativo del movimento cattolico detto, per le sue posizioni, “intransigente”.
Non mancarono tuttavia gruppi di cattolici, in genere sostenuti da una parte minoritaria del clero e persino da alcuni vescovi (Bonomelli di Cremona, Scalabrini di Piacenza, Capecelatro di Capua) che si batterono contro la linea intransigente, sostenendo da un lato che lo Stato nazionale era da considerarsi un fatto irreversibile e, dall’altro, che la classe dirigente liberale non era da considerarsi tutta ugualmente avversa alla Chiesa e alla religione. Questa minoranza cattolica, detta “conciliatorista”, cattolico-liberale o transigente, raccoglieva in parte l’eredità del neoguelfismo, auspicando la rapida composizione del conflitto tra Stato e Chiesa, una soluzione di compromesso della questione romana, e l’intervento anche elettorale dei cattolici a sostegno dei liberali favorevoli al dialogo con la Chiesa.

F. Traniello, Una breccia da chiudere. I cattolici italiani nell’Ottocento, in Storia e Dossier 73, maggio 1993, p.8

 

TRACCE DI PIACENZA/2

Come trattare un gruppo umano di tal fatta? La Chiesa tentò di “sublimare” lo stato del lebbroso e nello stesso tempo di disciplinarne i comportamenti, non solo con l’assistenza religiosa, ma anche con la spinta a professare i voti di castità, povertà e obbedienza analogamente alle persone sane che si prendevano cura di loro, i cosiddetti “conversi”.
In alcuni casi lo sforzo sembrò approdare al successo, se si deve badare agli statuti di qualche lebbrosario. Ma gli stessi statuti mostrano diversità in proposito. Nella regola vigente nel lebbrosario di Parma, compilata con probabilità nei primi anni del Duecento, l’ammissione nell’istituto degli infermi avveniva con una professione di carattere religioso simile a quella dei conversi, e ai “malsani” di Trento, secondo quanto previsto dagli statuti emanati dal vescovo nel 1241, si offriva la possibilità di pronunciare i voti.
Ordinamenti come quelli di Piacenza e Pavia (1214 e 1216) escludevano invece per i malati lo stato religioso di conversi, indicando (come nel caso di Piacenza) quale sola regola l’astensione dal male nelle parole e nei fatti e la pazienza nel sopportare l’infermità, riducendo a qualche norma di elementare disciplina le costrizioni “religiose”. Un documento veronese che rispecchia la situazione del lebbrosario locale degli anni 1223-1225 fa parlare i malati ed esprime la coscienza che essi hanno di non potere essere assimilati a coloro che professavano i voti, offrendosi all’istituto con un formale rito di oblazione, in quanto si ritenevano incapaci di reggere i pesi della vita religiosa in senso stretto. È una delle rarissime testimonianze in prima persona dei “malsani“: tanto più interessante in quanto mostra direttamente gli ostacoli intrinseci al volere della Chiesa di una completa e reale introduzione del lebbroso alla condizione religiosa.

G. De Sandre Gasparini, La pietà oltre il muro. Lebbra e lebbrosari nel Medioevo, in Storia e Dossier 72, aprile 1993, p.42

AD LIBITUM

In apparenza Amedeo Balbi mette giù le cose in maniera diversa, ma mi pare che le osservazioni e le domande che Keplero formula all’inizio del suo post (e i cui sviluppi sono rintracciabili anche su FriendFeed) potrebbero essere riformulate e condensate nel seguente modo:

Le leggi di natura determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che prendono coscienza dell’esistenza di leggi di natura che determinano l’evoluzione di un universo all’interno del quale a un certo punto emergono degli esseri che… (ad libitum)

C’è qualcosa di strano in questo processo all’infinito. Non sta tanto nel fatto che, all’interno di questa sintetica illustrazione del determinismo fisico, ad un certo punto emergerebbe la figura di un soggetto intelligente che prende coscienza dell’esistenza di leggi che ne determinerebbero azioni e decisioni libere solo in apparenza, e che prendendo coscienza retrofletterebbe sulle leggi di natura lo stesso determinismo che le leggi di natura eserciterebbero nei suoi confronti (il che è già un bel problema, non fosse altro che per il dover render ragione di tutte le parole ed espressioni in corsivo cogliendone la genesi, ossia la natura delle pratiche che ne hanno reso possibile il venire al mondo).
No, quel che non torna, da subito, è che l’espressione leggi di natura viene usata in due sensi e due significati differenti. In apertura di frase starebbe ad indicare un dato oggettivo, le leggi di natura in sé e per sé, realmente esistenti. Nel prosieguo della frase starebbe invece ad indicare l’oggetto della presa di coscienza dei soggetti intelligenti, che quindi in qualche modo inventerebbero il concetto di leggi di natura utilizzandolo per spiegare il mondo così come si presenta; e questa sarebbe la conoscenza scientifica di cui le leggi di natura sarebbero l’oggetto.
L’insensatezza della visione deterministica dell’universo (insensatezza che, si badi, coinvolge in altri modi anche la visione opposta di un universo liberamente regolato da una volontà, umana o divina e provvidente, poco importa) sta tutta qui: nello scambiare una pratica di conoscenza per una realtà sostanziale, retroflettendo tale pretesa realtà nel ruolo dell’origine e pretendendo in aggiunta di spiegare a partire da essa la pratica di conoscenza da cui essa stessa trae origine.
Il che, per la verità, è proprio il destino della conoscenza scientifica del mondo nel momento in cui si allontana dalle proprie pratiche cedendo alla pretesa di spiegare la verità del mondo in assoluto, per tutti e per ciascuno.
Ossia quando pretende, senza saperlo, di farsi metafisica. O storicismo, che poi è la stessa roba.

16 LUGLIO 2011

Compiere gli anni in estate non è una cosa facile.

Quando ero piccola eravamo sempre in campagna.
Niente compagni di scuola, niente amichetti.
Ho un sacco di foto fatte intorno al tavolo rotondo io, lo zuccotto e i miei cugini.
Di anno in anno aumentavano le candeline sulla torta, scomparivano denti, apparivano occhiali.
Oggi le ho messe in fila. Eravamo sempre noi, di anno in anno diversi.
Poi son diventata grande e il 16 luglio faceva schifo uguale.
Gli amici sono al mare oppure sei al mare tu e il compleanno lontano da casa è complicato da organizzare.
Allora niente regali, che non si sa dove comprarli, e niente neanche quando torni, che ormai è il compleanno di qualcun altro e il tuo è già passato.
Anni di cene romantiche in posti meravigliosi, tu, tuo marito, i tuoi figli e qualche volta la suocera o la mamma. Che è bello anche così, per carità.
E poi ci son giornate come questa, giornate che sei felice anche se ti senti troppo grande.
Giornate che ricorderai per la sorpresa, per l’affetto, perché è stato tutto per te.
Giornate che sorridi come in quella foto.
Sì. Quella foto là, che abbracci il mondo.

 

TRACCE DI PIACENZA/1

Non sempre l’igiene personale era sconosciuta: anche ritenendo una misura d’eccezione (dovuta alla circostanza) la pulizia integrale degli ammalati al momento del loro ricovero in qualche grande ospedale (accadeva così, per esempio, per il S. Maria della Scala di Siena, nel Trecento), alcune parti del corpo erano usualmente sottoposte a pulizia. Così era per le mani, che di norma venivano lavate prima e dopo il pasto, almeno nei grandi banchetti e fra la nobiltà. Non è senza significato, del resto, che nei corredi di nozze delle aristocratiche o delle ricche borghesi non mancassero mai bacili, “mesciroba” (brocche per l’acqua) e asciugamani destinati a questo uso. Molto probabilmente fra la gente del popolo le cose andavano in maniera diversa, almeno se dicono il vero le feroci descrizioni dei novellieri; certo il sapone era una merce ricercata e costosa (nel 744 Liutprando ne faceva dono in buona quantità alla Chiesa di Piacenza “ad pauperes lavandos”, per lavare i poveri, con un atto che parve degno di essere ricordato per scritto), tanto che le tariffe doganali cui era sottoposto raggiungevano, almeno nel Piemonte del Duecento, i livelli delle più preziose sete o velluti.

D. Balestracci, L’igiene nel Medioevo. Le castellane al bagno, in Civiltà 13, luglio 2011, pp.16-18

 

STORIE D’ACQUA

Ci portava mia zia, che era l’unica che non lavorava.
Partivamo nel primo pomeriggio e scendevamo a piedi. Lei davanti e sei bambini urlanti dietro che scendevano la collina tagliando per i campi.
Già il viaggio era una festa: si andava al Trebbia.
Si andava a fare il bagno sotto il ponte o vicino al mulino, che c’erano i sassoni da cui si potevano fare i tuffi.
E l’acqua era gelata, i sassi scivolosi e non ci si poteva stendere a prendere il sole perché non c’era altro che ciottoli lì attorno. Una festa.
La zia teneva il conto del tempo: non si entrava in acqua se non erano passate tre ore dal pranzo. Poi sedeva all’ombra su un sasso grosso con il suo grembiule a fiori abbottonato davanti e ci curava mentre noi entravamo e uscivamo dal fiume in continuazione.
E quando lo diceva lei si usciva tutti dall’acqua, ci si toglieva il costume bagnato, si infilavano le mutande e si tornava a casa, scarpinando per i campi, in salita fino a casa.

PINZIMONIO. LA GENESI.

Quando ero piccola vivevo in casa coi miei nonni. Era un appartamento al quarto piano, senza ascensore.
La cucina era così piccola che a tavola non ci stavamo tutti e la nonna mangiava appoggiando il piatto sul ripiano dei mobili; c’erano solo due stanze da letto e io dormivo in camera coi miei e sul divano in sala non c’era mai posto così guardavo la televisione in bianco e nero seduta su una sedia. Eppure per me era una casa bellissima. Non ero mai sola.
E c’era il nonno Nino. Diceva che io ero il suo cestino di fiori.
Ricordo battaglie con i ferri da calza in corridoio, io che attaccavo e lui che si difendeva, e la nonna che mi insegnava a fare il mezzo punto. E poi ricordo la primavera. Perché quando arrivava maggio ce ne andavamo in campagna, nella casa dove era nato mio padre, e stavamo lì fino a novembre.
Io, la mamma, il papà e i nonni.
E il nonno Nino era nel suo regno. Maglia di lana anche ad agosto e camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, si sedeva sui sassi davanti alla conigliera e dominava l’aia. Lui lì aveva lavorato la terra, accudito le bestie, cresciuto quattro figli. E adesso aveva me, il suo cestino di fiori.
Nella casa dei nonni non c’era il bagno e la nonna scaldava l’acqua sulla stufa a riempiva una tinozza di plastica azzurra per lavarmi.
Quella casa di sassi racchiude tutti i più bei ricordi della mia infanzia.
La mattina il nonno beveva il vino rosso nella scodella e mangiava i peperoni in pinzimonio. Metteva il sale nella tazza del latte e poi aggiungeva l’olio, mi prendeva in braccio e mangiavamo i peperoni crudi. Rossi, verdi o gialli li tagliava a strisce e pocciavamo insieme. Erano la cosa più buona del mondo.
Poi una volta, avrò avuto cinque anni, devo avere esagerato e ho vomitato un giorno intero. La nonna ha dato un sacco di nomi al nonno e la mamma, quando è tornata dal lavoro, ha messo il broncio.
I peperoni al mattino non me li han fatti mangiare più. E per protesta non li ho mangiati più in assoluto.
L’anno dopo è nata mia sorella, han fatto il bagno nuovo nella casa vecchia, han cominciato a ristrutturare il fienile per farci quattro appartamenti per la mia famiglia e quelle dei miei zii. Ma questa è un’altra storia.

Insomma,  quando sono andata a fare la lista di nozze e mi han proposto il servizio da pinzimonio io non son stata capace di dire di no. Un piatto per le verdure e sei piccole ciotole decorate con verdurine colorate. Inutile dire che non l’ho usato mai.
Perché il pinzimonio si fa nella tazza del latte, si mette il sale e poi si aggiunge l’olio e si deve pocciare con qualcuno a cui si vuole molto bene, possibilmente di mattina.

E DICI NIENTE.

Mio marito dice che oggi non ho fatto niente. Ma non è mica vero.
Stamattina, per esempio, mi sono alzata presto che di solito non lo faccio mai.
Ho preparato il caffè e caricato la prima lavatrice.
Poi ho dato una sistemata al bagno e intanto che ero lì ho cominciato a pensare che devo preparare la casa che lunedì prossimo arriva l’imbianchino; bisogna spostare i mobili e per farlo bisogna vuotarli e già che è tutto fuori bisognerà anche dare una lavata a tutta quella roba inutile e poi bisogna trovare il posto per i nuovi bicchieri dell’esselunga.

Aspetta che ci penso. Dunque. Tre servizi da caffè per 12, un servizio da the sempre per 12, 12 bicchieri da whiskey+bottiglia da liquore+secchiello ghiaccio, due servizi da 12 di bicchieri (acqua, vino e flûte) di cui uno con 12 coppe, un servizio da 6 di bicchieri+bottiglia in vetro di murano. E poi ci sono un tot di bomboniere e ceramiche varie.  E niente. Bisogna togliere, ma come si ripongono i bicchieri? Perché non posso più tenere in giro cose che in 19 anni non ho mai usato, ma son regali di nozze e mi par brutto buttarli via. Allora vediamo, potrei imballare un po’ di cose nella carta scoppiettina e metterle in uno scatolone in alto nel ripostiglio. Però bisogna fargli spazio, allo scatolone. Non so, dovrei trovare un posto nuovo alle valige. Bisognerà pensarci. Carico la seconda lavatrice e raccolgo i panni asciutti.

E poi bisogna smontare le plafoniere. Che brutte che sono. Secondo me se si potesse tingere di bianco quel cerchio nero starebbero sicuramente meglio, lo devo dire all’imbianchino, magari basta una mano di vernice. Certo che andrebbe tinta anche quella dell’antibagno. La scarpiera! Ecco devo ricordare di togliere la scarpiera che deve tinteggiare anche qui. E il frigorifero! Bisognerà spostare anche quello. Sarò meglio che lo facciamo prima noi che chissà che cosa c’è lì sotto. Poi bisogna smontare le mensole in cucina. Le mensole si tolgono senza problemi, ma la scarpiera? Non ricordo come l’abbiamo fissata al muro. Ci devo guardare. Raccolgo i panni e carico la terza lavatrice.

Pranzo, caffè e sigaretta.

Magari  basta svitare due viti e la scarpiera viene via. Ma anche quella immagino andrà vuotata. Il gatto farà una gran festa. Io lo odio quel muro. Quel muro lì a cui è appoggiata la scarpiera. Dietro c’è l’appartamento vuoto da anni, quello che dovrebbe essere mio e invece no. Perché io quel muro lo abbatterei e questa verrebbe tutta zona notte, tre stanze belle grandi. Poi rifarei il corridoio e chiuderei la cucina. Lì ci viene una bella nicchia con i ripiani e davanti una poltroncina e qui si apre tutto, una bella porta grande a due battenti scorrevoli.  Carico la quarta lavatrice, raccolgo i panni.

Di là ci viene lo studio, la lavanderia, una bella sala grande, una stanza per gli ospiti e il secondo bagno, magari anche il terzo. Non avrei più il problema di dove mettere i bicchieri o le valige, non sentirei più i miei figli discutere, avrei una cabina armadio e molta più luce. Però non so come si fa in questo caso con gli impianti. Si mettono insieme? Si tengono separati? E la porta di ingresso? Una la posso togliere o le devo tenere tutte e due? Magari poi chiedo a qualcuno, così, per curiosità. Son stanca adesso.

Che dici amore? La lista della spesa? No, non l’ho fatta. Avevo da fare.