CHE POI IO SUL PEZZO SON MICA CAPACE DI STARCI…

Che poi io a quell’incontro lì non so neanche come ci sono capitato.

Che son mica un testone come l’Accame, o Manasse.

E neanche c’ho un blog che la gente segue e viene a leggere (che oggi, per dire, ci son passate tre persone, e di sicuro tutte per sbaglio, e chissà cosa stavano cercando).

Però c’ho degli amici che al Gallizio ci han detto Guarda, c’è questo Leonardo, è così e così, fossi in te lo inviterei.

E il Gallizio mi ha invitato e io ci ho detto sì, anche perché il Gallizio mi ha detto che mi mandava il libro, e io coi tempi che corrono su un libro gratis mica ci sputo sopra. Ci ho detto Sì, ci vengo a sentire l’Odifreddi, caspita!, ci vengo sì, ci vengo. E ci sono andato.

Che poi lo so che son passati due giorni, e quelli che scrivono sui blog, su quelli grossi, hanno già detto tutto quello che c’era da dire, perciò cosa vuoi che mi metta a dire adesso, che son passati due giorni.

Ma sono fatto così, alle cose io ci devo pensare, che non mi viene sempre in mente subito la cosa giusta da dire. A volte non mi viene mai, a volte due giorni dopo. Quelli che scrivono sui blog, quelli grossi, non so mica come fanno. “Bisogna stare sul pezzo”, dicono. E bravo, io posso anche stare sul pezzo, ma se per stare sul pezzo poi dico una cazzata? Son figure, ci metti un attimo. Se non sei veloce a pensare, è un attimo che dici una cazzata, e poi bon, mica puoi dire parola torna indietro. L’hai detta e bon.

Allora io preferisco aspettare. E se mi viene in mente qualcosa poi lo scrivo sul blog, che tanto anche se son passati dei giorni non è che cambia molto, figurati, se scrivevo subito massimo massimo passavano di lì dieci persone in più che mi leggevano, e invece così ci saranno dieci persone che diranno Ma dai, che palle, ancora ‘sto Odifreddi?!, e passeranno avanti, ma cambia mica niente. Anzi, ti dirò, forse è meglio così, che anche se son passati due giorni son mica sicuro che questa che dico adesso è una roba giusta, magari è una cazzata, però almeno la leggono dieci persone in meno e faccio meno figura di merda.

Che io a Odifreddi ci ho fatto una domanda. Ma mica una domanda intelligente, ci ho fatto una domanda così, per sapere una cosa. Che nel suo libro lui seguita a dire che la ragione qua e la ragione là, che il papa dice le cose che non si capisce che senso hanno, e che la ragione invece dice delle cose diverse, e che lui non capisce come si fa a dire delle cose compagne, si vede che il papa e chi crede in dio non usa la ragione.

E allora io ci ho chiesto cosa è che intende per ragione. Che magari il problema è tutto lì, magari non ci si è messi d’accordo su cosa significa una parola, poi uno la usa in un modo, uno nell’altro e non ci si capisce mica, a volte si finisce anche per litigare, sembra che chissà cosa e invece è solo una roba di parole. Che poi si sa che una parola tira l’altra, si finisce magari per dire robe pesanti e poi è mica facile dire parola torna indietro.

Odifreddi è stato bravo. M’ha detto che la ragione è una cosa che è mica facile spiegare così in generale cos’è, ma che lo capisci se guardi la matematica e la geometria. Che la ragione è una roba che tu fai dei ragionamenti che vengono fuori l’uno dall’altro ma tutti attaccati, come i vagoni del treno, che se tu hai capito una cosa e dici che quella cosa è vera, tutto quello che vien fuori da quella cosa è vero anche lui, e mica puoi fare dei salti di qua e di là, mica puoi passare da un vagone all’altro del treno senza passare prima in quelli che ci stanno in mezzo, che la ragione è far vedere che se tu dici che una cosa è vera dietro quella cosa ci stanno altre cose vere, tutte attaccate, e tu puoi salire su su su, da una cosa all’altra, e tutte le cose vere vengono da altre cose che sono vere anche loro, fino che arrivi a delle cose che sono vere ma non sai mica perché, ma sono vere.

Che poi a Odifreddi ci han fatto un sacco di altre domande e tutto è stato molto bello.

Ma poi ci ho pensato a quello che m’ha detto Odifreddi, e ci sono cose che non ho mica capito tanto bene.

Cioè, se è vera quella roba dei ragionamenti che sono veri se uno vien fuori dall’altro, e se è vero che se vuoi fare vedere che una cosa è vera devi far vedere che è attaccata ad altre cose che sono vere anche loro perché anche loro sono attaccate ad altre cose che sono vere e avanti e avanti, beh, lui nel suo libro non fa mica così! Lui nel suo libro dice delle cose che dice che sono vere, e dice che le cose che dice il papa son mica vere, ma non mi fa mica vedere tutti i vagoni del treno! Fa dei salti che sembra un grillo! A volte per farti vedere che una cosa è vera ti dice Guarda, lo dice anche Einstein, Guarda, lo dicono tutti gli scienziati, Guarda, lo dice anche Darwin (che poi nel libro quando lui fa vedere cosa dicono gli scienziati e Darwin e Einstein e compagnia briscola, mica fa vedere quello che dicono di roba scientifica, no, ma quello che dicono su dio che esiste o non esiste o su come finisce il mondo o su come è iniziato, e mica fa vedere che quello che dicono son cose che vengono fuori una dall’altra e che sono robe vere perché dietro c’hanno altre robe vere, no, te le dice così, l’han detto loro, che son scienziati, ma a me ‘sta cosa non mi pare giusta e non mi basta mica, eh).

Cioè, io mica voglio dire che Odifreddi dice delle balle. Dico solo che se la ragione è quella roba là che mi ha detto, quando lui ha scritto quel libro lì non ha mica usato la ragione, ma ha usato un’altra roba. Che non so mica cos’è, ma è un’altra roba! E allora non ho mica capito: Odifreddi mi dice che la ragione è una roba, poi nel libro mi dice che il papa non usa mica la ragione e che dice delle cose che non stan mica in piedi, però per dirmi così non usa mica la ragione che lui ha detto che è l’unica cosa che ci fa dire le cose vere! Allora, scusa, a me mi vien da pensare che o mi stai prendendo in giro, o non ti sei mica accorto che hai fatto una loccata, e che se quello che dice il papa c’ha mica senso perché non vien fuori dalla ragione, quello che tu dici nel libro c’ha mica senso per lo stesso motivo!

Boh. Sarà che son mica un testone. Però c’ho guadagnato un libro e ho conosciuto la Mafe, Gallizio, Pavolini, Jannis e altra gente bella.

A momenti ci guadagnavo anche il portafoglio del .mau., ma questa è un’altra roba.

 

SIAMO FATTI COSÌ

La scuola, si sa, è un servizio pubblico: il trend degli ultimi vent’anni è quello di misurarne qualità e efficacia secondo gli standard propri di qualsiasi altro ufficio. Per esempio pare che sia importante, al termine della prestazione d’opera, chiedere alla clientela di esprimere un giudizio sul servizio offerto. E così da qualche anno chiediamo agli allievi delle classi quinte di riempire un questionario sui loro cinque anni di esperienza presso il nostro Istituto. Lo facciamo verso la fine di maggio, e per darci un tono lo chiamiamo Monitoraggio sulla qualità dell’offerta formativa.
Fino all’anno scorso il questionario consisteva in una serie di stimoli preconfezionati. Per esempio, un item diceva qualcosa del tipo: Gli insegnanti sono preparati e hanno un buon rapporto con gli allievi, e lo studente doveva barrare una crocetta lungo una scala graduata da 1 a 10, a seconda di quanto la frase corrispondesse alla propria esperienza. Se barrava in corrispondenza del 10 gli insegnanti risultavano essere dei missionari onniscienti, se barrava sul 4 o anche più a sinistra i professori diventavano degli ignoranti bastardi.
Inutile dire che la maggior parte delle risposte degli studenti finiva per concentrarsi sulla sufficienza risicata. Un po’ perché alcuni item risultavano loro poco chiari e comprensibili, o comunque al di fuori delle esperienze e delle possibilità di verifica della maggior parte di loro (La gestione del budget da parte del Consiglio d’Istituto è stata efficiente e trasparente); un po’ perché, nella mente avveduta dello studente medio, per esprimere giudizi sulla scuola e sugli insegnanti è meglio attendere l’esito dell’esame di Stato…
E così i questionari si sono sempre ridotti ad un noioso lavoro di compilazione e raccolta, buono solo per far perdere un po’ di tempo ai ragazzi durante le ore noiose degli ultimi giorni di scuola e per far perdere qualche minuto agli insegnanti durante le ancor più noiose ore del collegio docenti di giugno.
Ma quest’anno, complice un’atmosfera di precoce smobilitazione legata al simultaneo pensionamento del preside e di un gruppetto di colleghi storici, io e l’insegnante di matematica con la quale son solito condividere la menata abbiamo pensato, tempo perso per tempo perso, di cambiare le carte in tavola e di proporre ai nostri fanciulli qualcosa di meno “scientifico”, ma forse più stimolante. Ci siamo guardati in faccia e nelle nostre menti è scattato il colpo di genio: e se quest’anno – ci siamo detti – invece di presentare ai ragazzi la pappa pronta, gli item già belli e preconfezionati e le scalettine graduate provassimo – che audacia! – a permettere loro di scrivere davvero quello che pensano? Se provassimo a limitarci a chieder loro quattro semplici cose: quali sono secondo voi gli aspetti positivi di questa scuola; quali gli aspetti negativi; in cosa ritenete che la nostra scuola sia migliore delle altre scuole cittadine; in cosa credete che sia peggiore? E poi ci limitassimo a leggere al collegio docenti quello che salta fuori? E così abbiamo fatto.
A chi interessasse, quel che segue è la fedele trascrizione di quel che ne abbiamo ricavato. Errori grammaticali, sintattici e logici compresi.

Aspetti positivi della nostra scuola

  • I professori sono disponibili ad aiutare gli studenti
  • Gli insegnanti sono molto bravi e comprensivi; non sono severi, tranne qualche volta in cui cercano solo di aiutarci a far capire le cose.
  • Con i prof c’è un libero scambio di opinioni
  • I docenti ci aiutano umanamente
  • I professori sono simpatici e molto diligenti
  • Gli insegnanti rispettano le attività sportive/extracurricolari degli studenti
  • Quasi tutti gli insegnanti svolgono anche un’attività propria, quindi possono parlarci delle loro esperienze sul campo.
  • Il rapporto studente/insegnante è corretto, esigente ma anche umanamente piacevole.
  • Nel corso della mia carriera scolastica ho trovato insegnanti preparati, disponibili, e qualche volta sensibili alle nostre esigenze.
  • Gli insegnanti aiutano gli alunni anche in caso di problemi fuori dall’ambito scolastico e sono pronti ad ascoltarci e capirci.
  • C’è un clima di assoluto benessere
  • E’ una scuola tranquilla dove ci si trova bene con tutti
  • E’ un ambiente dove si viene volentieri
  • E’ una scuola abbastanza tranquilla, nel senso che i ragazzi non hanno la libertà di comportarsi in modo inadeguato.
  • C’è possibilità di relazionarsi con tutto il personale scolastico e con gli altri studenti perché siamo in pochi
  • In fin dei conti c’è un buon ambiente in cui studiare, con sintonia tra le varie classi e le “mele marce” vengono smaltite.
  • Non ci sono pomeriggi
  • In città, è comoda e facile da raggiungere
  • La scuola ha laboratori di inglese, CAD e disegno efficienti, ed è in una zona facilmente raggiungibile rispetto alla vecchia.
  • Siamo in una zona strategica
  • Ci sono esperienze internazionali per aiutarci a migliorare in inglese
  • C’è la possibilità di progredire nell’uso della Lingua inglese grazie a corsi supplementari e al PET.
  • I nostri progetti europei sono molto interessanti
  • In segreteria sono generalmente molto disponibili
  • Segreteria e staff scolastico molto efficienti
  • Il servizio di segreteria è sempre disponibile, se hai bisogno qualcosa
  • Un punto a favore sono gli incontri che abbiamo fatto con la Croce Bianca, i Maestri del Lavoro etc .
  • Per le classi V sono state organizzate uscite e visite a varie università e Campus
  • L’attività sportiva è adeguata, ma alcune attività vengono riservate solo ai maschi
  • I tornei d’istituto sono ben organizzati
  • Insegnamento di autocad
  • Raccolta differenziata nei corridoi
  • Nei bagni delle ragazze c’è quasi sempre sapone e carta igienica

Aspetti negativi della nostra scuola

  • Le strutture sono troppo deteriorate rispetto all’anno di costruzione
  • E’ una scuola costruita un po’ “con i piedi”
  • L’edificio pur essendo nuovo presenta molte problematiche: piove dentro, ci sono crepe e muri rovinati
  • D’inverno c’è troppo freddo in alcune aule
  • Nei periodi in cui piove si verificano infiltrazioni d’acqua dal solaio disturbando sia le lezioni che il passaggio nei corridoi
  • L’acustica nelle aule è pessima
  • L’ascensore sembra fatto d’oro, che al solo sguardo di un ragazzo sano possa svanire e non esserci più
  • Palestra fuori sede
  • I servizi che ci offre la scuola, le aule speciali e i laboratori sono poco utilizzati.
  • Si dovrebbero fare più ore di AUTOCAD
  • Durante le ore di Impianti nel corso del quarto e quinto anno si dovrebbe utilizzare molto di più l’aula CAD
  • C’è poca disponibilità delle aule computer
  • Alcuni computer durante l’uso di Progecad si rallentano molto o si bloccano del tutto
  • Le aule di informatica non sono adeguate, infatti i computer hanno sempre problemi che rallentano il lavoro
  • I laboratori di fisica e chimica non vengono utilizzati
  • Il laboratorio di chimica non è a norma
  • Le aule speciali a disposizione non vengono sfruttate sufficientemente
  • Troppo poco lavoro sul campo; in una scuola come la nostra sarebbero necessarie più esperienze di lavoro
  • Ci sono poche uscite didattiche sui cantieri
  • Poca esercitazione pratica soprattutto per quanto riguarda l’uso degli strumenti
  • La parte pratica di Topografia è scarsa
  • I professori accompagnano poco lo studente nella realizzazione del progetto per il quinto anno
  • Carenza di progetti extrascolastici che aiutino gli studenti all’inserimento nel mondo del lavoro
  • Non si fanno abbastanza ore di pratica.
  • Se lo stage viene fatto una sola settimana in un anno, è inutile
  • Mancanza di serietà nelle assemblee di istituto e di classe
  • Le informazioni richieste in segreteria molte volte sono senza risposta
  • I professori dovrebbero sanzionare di più gli alunni (punizioni concrete)
  • Contenuti piuttosto poveri nei programmi di alcune materie tecniche
  • Il metodo delle interrogazioni programmate non aiuta per l’apprendimento di un buon metodo di studio
  • Mancanza di progetti finiti già fatti da proporre come modello agli studenti delle V
  • Assenza di carta igienica nei bagni
  • I bagni sono spesso senza carta e senza salviettine
  • Inadeguati gli orari di apertura dei bagni
  • Mancanza di altre lingue oltre all’inglese

La nostra scuola è migliore delle altre

  • A mio parere prepara al lavoro molto meglio di altre scuole
  • Prepara a certi indirizzi universitari (architettura, ingegneria) meglio che i licei
  • Dà una formazione adatta sia al lavoro sia all’università
  • Facciamo i Progetti Europei
  • Usiamo molto il laboratorio di informatica/CAD
  • Abbiamo aule innovative e possiamo avere l’ECDL
  • Ci dà una preparazione che ci aiuta molto ad entrare nel mondo del lavoro.
  • Ci sono più opportunità di lavoro o proseguimento degli studi dopo il diploma
  • Manca il latino tra le materie di insegnamento
  • Non è pesantissima e la preparazione è buona
  • I nostri studi sono basati su qualcosa di concreto e che abbiamo sempre intorno a noi
  • Penso che questa sia una scuola che più di tutte le altre prepara al mondo del lavoro
  • C’è un miglior rapporto tra professori e studenti
  • È migliore l’atmosfera e la gente che frequenta questa scuola
  • Tra compagni ci si aiuta sempre
  • Essendo in pochi nell’istituto si riesce a seguirci tutti
  • Gli insegnanti sono più disponibili
  • Il rapporto con gli insegnanti e il personale è ottimo, anche perché essendo in pochi ci conosciamo tutti
  • C’è più semplicità e disinvoltura
  • La nostra scuola è meglio per modernità e reputazione
  • C’è un numero di iscritti ridotto
  • Nelle classi c’è un’integrazione pacifica, senza discriminazioni
  • Ogni anno si organizzano buone gite e attività extracurricolari

La nostra scuola è peggiore delle altre

  • Impossibilità di fare fotocopie urgenti in certi orari
  • Mancanza di una propria palestra
  • In alcune scuole i rappresentanti d’istituto sono più coinvolti in tutto; gli studenti sono più legati tra loro e organizzano cene e feste d’istituto
  • Nelle altre scuole fanno stages più lunghi e più frequenti
  • Scarsità di denaro (non si comprano neanche le tovagliette per asciugare le mani)
  • Molti insegnanti hanno un doppio lavoro, e quello di pubblico statale è visto da loro come meno importante
  • Ogni giorno si vedono le altre scuole sulla “Libertà”, che hanno organizzato qualcosa per studenti,  ma mai la nostra se non per furti e cose negative.

VOCI DI CORRIDOIO

Voci di corridoio, senza essere né un capolavoro né un’imperdibile inchiesta, prova a proporsi come un’interessante apertura di porte e di finestre.
Non riuscirà certo a cambiare l’aria, neppure lo pretende: però forse renderà noi insegnanti più capaci di guardare chi sta fuori e di capire cosa si aspetta dal nostro lavoro, e renderà più acuto lo sguardo di chi sta fuori e guarda verso di noi; e non sarà stato comunque poco.
E se invece non riusciremo a fare nemmeno questo, e vabbè, pazienza: sarà stato in ogni caso bello stare per qualche giorno tutti insieme su una pagina virtuale a raccontarci le nostre storie mattutine; e a raccontarle a tutti quelli che avranno voglia di sopportarci e di leggerci.

Perché c’è della bella gente anche sui socialcosi, checché se ne dica.
Perché da che mondo è mondo gli incontri più veri e le amicizie più belle sono quelle che nascono dalla condivisione del lavoro quotidiano (come anche gli scazzi più atomici e le antipatie più ostinate, perché niente come la vita è capace di coinvolgere e far reagire).
Perché ci sono dei pazzi che trovano ancora il tempo per fare cose gratuite e belle.
(Un grazie a PePPe, allo scorfano e a tutti gli altri)

PEZZI/03

Ma no, non è che ci provo con tutte le ragazze. Non con tutte, almeno. Solo con quelle belle. Con quelle belle, prof, sì che ci provo, ci provo subito!
Perché?!
Come, perché!
Ma perché è tardi, prof, c’ho poco tempo.
Ho diciott’anni, prof. Mio papà a diciott’anni già lavorava, sapeva già cosa avrebbe fatto per tutta la vita.
A vent’anni era già sposato, l’anno dopo sono nato io, l’anno dopo ancora è nato mio fratello Andrej.
Quando è venuto in Italia, papà aveva ventiquattr’anni, una moglie, due figli e era già un bravo muratore.
E adesso papà mi dice di sbrigarmi.
Perché sono ancora in quarta, mi manca un anno prima di finire ‘sto cavolo di scuola e poter andare a lavorare.
Quando avrò finito avrò quasi vent’anni. E mi dovrò sposare, prof.
Ma se non mi do da fare, se non trovo una donna bella che mi sposi e arrivo a venticinque anni, a venticinque anni si è vecchi, prof, a venticinque anni è troppo tardi.
A venticinque anni, se non sei già sposato, ti danno la prima che capita. Si fa un matrimonio combinato, e ti danno quel che c’è. Quello che resta. Ti danno una donna che non ha voluto nessuno, che non si è presa nessuno. Ti  danno gli scarti.
E io mica voglio uno scarto, voglio una moglie bella. E allora mi devo dar da fare.
Oh, in Macedonia è così.

IL VECCHIO DELLA PISCINA

Il vecchio della piscina, quando tu sei lì che ti avvicini a bordo vasca – e c’hai già su la cuffia e stai per infilarti gli occhialini e dai un’ occhiata intorno per identificare la corsia meno affollata -, il vecchio della piscina ti inquadra, ti legge nel pensiero,  smette di nuotare, ti punta e ti apostrofa a voce altissima:
– VORRÀ MICA ENTRAR QUI CHE SIAMO GIÀ IN TRE, EH?

Il vecchio della piscina, quando tu sei lì che ti vai a fare la doccia – e ci siete solo tu e lui, e tu hai appena appeso l’accappatoio e stai per infilare il gettone e selezionare la doccia -, il vecchio della piscina (che per un’abitudine contratta in caserma negli anni ’40 prima di farsi la doccia si insapona dalla testa ai piedi usando i lavabo) nudo come un bego e coperto di schiuma ti inquadra, ti legge nel pensiero, smette di insaponarsi, ti punta e ti apostrofa a voce altissima:
– VORRÀ MICA PRENDERE LA PRIMA DOCCIA A SINISTRA SUBITO DIETRO IL MURETTO, EH? NO, PERCHÉ QUELLA LA PRENDO IO!

Il vecchio della piscina, quando tu sei lì che hai scelto la tua corsia e inizi a nuotare, capita che ti accorgi all’ultimo momento che ce l’hai davanti che nuota e che porca troia non lo avevi riconosciuto, un po’ perché sei miope come una talpa e un po’ perché adesso non è che sei in grado di riconoscere tutti i vecchi di Piacenza dal colore della cuffia. Ma il vecchio della piscina c’ha che lui non è capace di nuotare: è una roba strana, è come se si limitasse a galleggiare facendosi portare dalla corrente, agitando nel frattempo gli arti in modo scoordinato e parossistico, a mo’ di grottesca e simultanea imitazione di tutti e quattro gli stili. Il guaio è che oggi siete in quattro in questa fottuta corsia, e ti capita di dover nuotare con davanti una boa di carne che ti rallenta, ti rompe il ritmo e che risulta insuperabile, un po’ per quel suo muoversi  imprevedibile e laocoontico che prende l’intera larghezza della corsia, un po’ perché il pericolo di schiantare la capoccia contro un nuotatore proveniente in senso inverso è reale. E allora fai le tue vasche, ma con il doppio del tempo e il triplo della fatica.

Il vecchio della piscina, quando tu torni ansimante nello spogliatoio, te lo trovi lì in bagno già nudo come un bego e tutto insaponato, ché è uscito tre minuti prima di te. Tu entri nella doccia, selezioni il getto sotto il suo sguardo indagatore (non sia mai che selezioni la prima doccia a sinistra) e ti godi il calore dell’acqua sul corpo affaticato. Shampoo, bagnoschiuma, ti sciacqui e stai ancora un po’ lì a goderti il getto sulla pelle. A un tratto MA DOVE CAZZO VA MESSO IL GETTONE?!,  ti volti, vedi il vecchio della piscina che armeggia col macchinozzo, capisci che gli ha mangiato il gettone che lui ha infilato in una fessura impropria e al colmo dell’agitazione e dell’incazzatura lo vedi tirare un bel pugno sulla scatola metallica. La centralina elettronica non la prende benissimo, legge il cazzotto come un atto ostile e si vendica nell’unico modo possibile, andando in tilt.

E sospendendo l’erogazione dell’acqua.

E così tu resti sotto la doccia ormai arida, bello sciacquato ma frustrato nel tuo desiderio di goderti ancora qualche minuto di quel tiepido relax. Dai un’occhiata al vecchio della piscina, sempre nudo come un bego e nascosto da un nuvolone di schiuma, che comincia a urlacchiare MA COS’È SUCCESSO? CHE CAZZO È SUCCESSO? Non lo degni di una risposta, indossi il tuo accappatoio e ti vai ad asciugare e rivestire nello spogliatoio.

Il vecchio della piscina ti segue sciabattando e spargendo schiuma dappertutto. MA ADESSO COME CAZZO FACCIO, ti chiede, COME CAZZO FACCIO. Eh, non so, gli rispondi. PUÒ MICA CHIAMARE QUALCUNO? Certo, vecchio, adesso, appena esco. Ma te la prendi comoda. Ti asciughi, ti foni, ti vesti, accompagnato come un mantra dall’urlacchiare del vecchio della piscina, che nudo e insaponato fa la spola tra le docce e lo spogliatoio continuando a ripetere NO PERCHÉ QUI C’È GENTE CHE È BAGNATA E COMINCIA A AVER FREDDO. Ma con ogni evidenza ci siete solo tu e lui, e tu sei asciutto.

Chiudi la borsa, tiri fuori le chiavi della macchina e il vecchio della piscina ti segue per lo spogliatoio ripetendo per l’ultima volta il suo verso: QUI C’È DA CHIAMARE QUALCUNO, QUANDO VA FUORI CHIAMI QUALCUNO CHE QUI C’È QUALCUNO CHE HA FREDDO. Ma certo, vecchio, gli rispondi, tranquillo.

Chiudi la porta dello spogliatoio che ancora lo senti berciare.

Passi davanti la cassa, Buongiorno, Buongiorno, grazie, alla prossima. Vai avanti, ma poi ci ripensi, ti fermi e torni indietro. Scusi. Dica. Il mio abbonamento scade a fine maggio. A giugno si può fare l’abbonamento per la piscina scoperta? No, mi dispiace, non è previsto. Capisco. Va bene, arrivederci. Arrivederci.

BRAVI NOI

Diciannove anni fa, più o meno a quest’ora, siamo andati nella casa nuova e abbiamo lasciato le chiavi agli amici perché potessero riempirci il letto di riso e tappezzarci le pareti di carta igienica.
Ti ho chiesto se avevi chiamato il ristorante e tu hai risposto “sì, è tutto a posto”.
Poi sono tornata a casa dei miei ho messo in ordine le cose e i pensieri, come faccio sempre, e ho dormito col mio bambino nella stanza che tante volte ci ha visto abbracciati.
“Mamma, domani ci sposiamo.” “Ci sposiamo, sì.”
Del mattino dopo non ricordo molto. Marco che correva su e giù per il corridoio, la sarta col vestito, il parrucchiere che non mi diceva l’ora perché eravamo paurosamente in ritardo.
Poi Daniela che si è messa a piangere e tuo cugino che si vantava dell’alettone montato sulla macchina che mi doveva portare in chiesa. Il bouquet sbagliato, mio padre che mi aiutava a scendere e mi diceva quanto ero bella. Tu che all’altare mi chiedi in dialetto come va. E tanta gente, davvero tanta; la gente che ci ha accompagnato in quella storia strana che è stata la nostra vita. Ognuno a suo modo e comunque tutti lì.
Marco che dorme tra noi due nel tragitto in macchina, gli zingari accampati davanti al ristorante, il nostro tavolo che non c’era e tutto il tempo in piedi a parlare coi parenti.
Ricordo la stanchezza, l’acconciatura che non riuscivo a sciogliere, tuo fratello che è rimasto fino a tardi a farci compagnia seduti sui divani nuovi.
Domani sarà un’altra volta il 25 aprile.
Nonostante tutto siamo stati bravi. Davvero.

PEZZI/02

Non è bello venire a sapere che tuo figlio fuga da scuola.
Non è bello scoprirlo alle udienze, dagli insegnanti. Fai la figura del fesso, ti senti un fesso. E ti senti ingannato da quello là, che poi quando torno a casa facciamo i conti.
Non è bello, e ti senti fesso, e allora urli, lo minacci, e gridi e gli chiedi dov’è che è andato tutti quei giorni.
Al bar, ti dice.
Al  bar, gli ripeti. E a far cosa, al bar tutta la mattina?!
– Con gli amici, con quelli che fugano con me.
– Va bene, ma a far cosa, cristo, a fare cosa?!
– A giocare.
– …come, a giocare.
– A giocare, papà.
– Ma a cosa.
– Dipende. A carte, con le macchinette. Dipende.
– A carte. Con le macchinette.
– Già.
– Ma a soldi.
– Papà…
– Taci! A soldi?
– Sì.
– …e quanto hai perso.
– Tanto, papà.
Che già ti senti fesso, e adesso la vergogna, la vergogna di tuo figlio che deve soldi a mezzo paese, alla parte peggiore del paese, ai perditempo del bar, a quelli che al mattino sono al bar a perdere tempo, a quelli che al mattino manco vanno a lavorare, manco hanno una famiglia, e se hanno una famiglia se ne fregano, vanno a giocare al bar, a quelli lì mio figlio deve un sacco di soldi…
– E tu adesso glieli ridai, i soldi.
– Ma come faccio, papà…
– Cazzi tuoi! Tu adesso vai a scuola e lavori, da oggi vai a scuola e lavori, e poi studi e poi lavori e studi e lavori finché non hai pagato tutti i debiti fino all’ultimo centesimo.
…che poi mio figlio non ha lavorato neanche un giorno.
Perché due giorni dopo son tornato a casa e lui mi ha detto che aveva pagato tutti i debiti.
– Ma come hai fatto, che non ti ho ancora trovato uno straccio di lavoro?!
– Papà, ho vinto.
– Come, ho vinto.
– Ho vinto. Ho giocato a carte, e ho vinto. Un bel po’ di soldi, un sacco di soldi. E ho pagato tutti i debiti, papà, non devo più una lira a nessuno.
Professore, non ti dico il peso. Il peso che mi si è tolto. Ero incazzato, sì, che quel cretino aveva giocato a carte, e poteva perdere ancora, e mandare sua madre nei matti e a me in galera, perché l’ammazzavo, ma era più la contentezza dell’essermi tolto il peso.
“Non gioco più a carte, te lo prometto”: così mi ha detto. E da allora non ha più fugato, vero prof? Ecco, lo dice anche lei, è vero.
È andata bene.
Che poi un po’ mi dispiace che non abbia dovuto lavorare neanche un giorno per pagare i debiti, che secondo me così imparava cosa significa farli su, i soldi.

L’AMICA DI TUTTA UNA VITA

Questa notte ho perso un’amica.
Prima di essere mia amica era amica di mio padre e di mia madre.
Era amica dei miei nonni.
Poi è stata amica di mio marito e dei miei figli.
E’ stata l’amica di una vita.
Era una donna asciutta.
Non ti diceva che eri bella o che eri stata brava. Ti stringeva forte la mano e c’era dentro tutto.
Era una donna grande, con il grembiule stretto in vita.
Una che sapeva voler bene anche ai tuoi sbagli, senza negarli mai.
Ti guardava e sapevi sempre cosa pensava.
Quando in questi anni mi parlava di mio padre, delle cose che non sapevo di lui, di cose che lui a noi non aveva detto ma che a lei aveva confidato,  me lo vedevo davanti, così com’era.
Perché lei conosceva davvero le persone e ne tratteneva l’essenza.
E di lei era l’essenza che colpiva. Quel suo stare nel mondo senza fronzoli, senza maschere.
Quella forza che mai l’ha abbandonata in una vita che non è stata facile.
E nonostante tutto quando rideva lo faceva con gusto.
Ero seduta al tavolo della sua cucina dopo l’intervento che ha segnato l‘inizio della fine del mio papà.
Correvo lì nei mesi in cui avevo smesso di parlare con mia madre.
L’ho costretta ad ascoltare i miei rancori, le mie delusioni, le paure.
In quella stanza ho trovato tante volte rifugio.
Nella sua casa. Quella che lei aveva visto costruire e di cui conservava in testa lo schema degli impianti e la scadenza delle manutenzioni. Una donna pratica.
Per lei neanche morire è stato facile.
Sempre presente. La mente vigile in un corpo stanco che ha combattuto per 96 anni.
Ora riposa. E fuori c’è il sole.
Un’amica da sempre.
Non si perde un’amica così.

ASTRATTO E CONCRETO

Prof, ma il tempo c’è, è qualcosa di concreto. Si sente, il tempo che passa, lo si vede.

Sto spiegando il valore del presente. A studenti di quattordici, quindici anni, tutti proiettati verso il futuro, verso il quando sarò grande o anche solo verso il quando verrà sabato pomeriggio (se non addirittura  verso il traguardo minimo del quando suonerà la campanella), cerco di far comprendere il valore eterno dell’istante presente, l’unico che ci sia dato di vivere, fuori dalle metafore del passato (il ricordo presente) e del futuro (l’attesa, la speranza, il desiderio, comunque sempre e solo – e come potrebbe essere altrimenti – presente).
Forzando al massimo e tentando di suscitare reazioni, dico loro che il tempo non esiste, che se hanno del tempo l’immagine di un fiume che scorre, di qualcosa che “passa”, beh, propriamente, in quel senso, non esiste un bel nulla. Non esiste davvero, in realtà. Nel concreto.
Ed è lì che salta fuori l’osservazione del mio studentello.
Che io rintuzzo e smonto da vecchio sofista, ma che apprezzo a non finire.

Perché fra tutte le opposizioni categoriali con le quali ci misuriamo ogni giorno (bello-brutto, buono-cattivo, vero-falso, giusto-sbagliato…), quella astratto-concreto la considero la più riduttiva e menzognera.
Tutte le altre opposizioni dividono il mondo in due parti grosso modo equipotenti. Per ogni affermazione vera ce n’è una falsa, per ogni cosa giusta c’è un errore. Ci son tante cose belle, ma anche tante cose brutte, e l’elenco delle cose vere e delle cose false finisce per equivalersi.
Invece, cose concrete e cose astratte non si equivalgono. Le cose astratte sono molto più delle cose concrete, si pensa. Concreto è quel che è visibile e toccabile. Quel che occupa spazio. Ciò che fa male quando ci sbatti contro. Ma le cose astratte non si vedono e non si toccano. In un certo qual modo non esistono davvero, o almeno, la loro è un’esistenza di serie B. Le cose astratte sanno d’inganno. Si mascherano dietro la potenza della parola, fingono uno spessore che non hanno, non più di quanto ne abbia il fiato necessario a nominarle. Le cose astratte sono un residuo di concezione realista, l’ultimo rifugio della metafisica platonica sfuggito al positivismo.
Fin dalle elementari ci insegnano a braccarle, a render loro la vita difficile, a individuarle per tempo. Fin dai primi timidi addestramenti all’analisi grammaticale. Non bastava individuare i nomi e distinguerli dagli aggettivi e dai verbi; non bastava individuarne genere e numero, no: occorreva distinguere se la cosa era concreta o astratta. Sedia: nome comune di cosa, concreta, femminile, singolare. Dolcezza: nome comune di cosa, astratta, femminile, singolare. Di qua o di là. Di qua, il regno della solida realtà; di là, quello delle pure parole, dei concetti, del flatus vocis.
Poi, crescendo, mi sono reso conto che c’era qualcosa che non mi tornava. Proprio a partire dall’analisi grammaticale. Giustizia: nome comune di cosa. Astratta. Ma come, astratta?! E pensavo a quanto mi faceva male subire ingiustizie, a quanto mi provocasse dolore…  Aspetta: dolore. Dolore, è concreto o astratto? Non si scappa: è astratto, non lo vedi e non lo tocchi. Ma come, astratto?! Questo dolore che oggi che mi son rotto un braccio mi fa urlare e piangere mentre mia madre mi porta in ospedale, è astratto? E l’amore? Questo aggrovigliarsi di visceri, questo volerti venire a trovare, questo desiderio (desiderio? astratto!) di vederti, senza sapere che dirti, questa inspiegabile euforia, questo strano misto di dolcezza e paura (paura? astratta!)… tutto astratto. Vuoi mettere con la sedia? Quella sì che è concreta.
Ora, mentre lavoro coi miei ragazzi e tento d’insegnar loro, col tremore ai polsi, cos’è la vita (eh, sì, caro collega, perché se pensi di dover insegnare qualcosa di meno di questo, attraverso la tua letteratura, la tua chimica, la tua biologia e la tua tecnologia delle costruzioni, beh, non hai capito un tubo del tuo mestiere), fra le mille altre cose cerco di far passare (o di inculcare) questa strana legge: crescere, diventar grandi, diventare donne e uomini significa render concreto l’astratto. Significa fecondare il regno monotono e insensato del concreto grammaticale con la possibilità di ciò che sembra astratto. Significa provare sulla pelle, nella carne, nelle viscere quant’è concreto l’astratto. O come ha detto qualcuno che se ne intendeva, significa divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore. Vizi e valori, astratti; eppure, esperto, expertus, sperimentato, capace di provare, in concreto, sulla propria pelle, quei vizi e quel valore.

E allora apprezzo il mio ragazzo che dice che il tempo esiste, che si prova, che si sente, che si vede. Quel che vede, sente, prova non è, in senso proprio, il tempo, è qualcos’altro. Cosa sia glielo dirà la vita. Per l’intanto ha scoperto che qualcosa che è giudicato astratto può essere provato. Non se lo dimenticherà. Per trarne le debite conclusioni gli ci vorrà solo tempo. Che non esiste, che è astratto, ma che ci è dato proprio per comprendere come lasciarci alle spalle quella distinzione menzognera.

PEZZI/01

Ho perso il papà che avevo sedici anni.
Una volta gli ho detto che mi ammazzavo. La sberla che mi ha dato me la ricordo ancora adesso.
Era la prima volta che mi metteva le mani addosso, ed è stata anche l’ultima.
Qualche anno prima suo fratello, mio zio, si era suicidato. Ma io non lo sapevo, me lo disse mia madre qualche tempo dopo la morte di papà.
Un tumore fulminante al fegato.

(È che in questo lavoro se ne sentono tante. Alcune leggere, altre pesanti. Alcune piccole, altre grandi. Altre, grosse. Talvolta troppo. Allora ogni tanto vien voglia di scaricare, di deporre il peso, di metterne giù almeno una parte. Non per disfarsene, no. Solo, per guardarlo con un minimo di distacco e recuperare un po’ di oggettività. Tanto per tirare un attimo il fiato. E poi riprenderselo sulle spalle, e condividerne almeno un atomo.)