STRANE FORME DI CECITÀ

Poi ci sono le classi per le quali sei trasparente.
Faticano a rispondere al tuo saluto, fan mostra di non aver sentito le tue domande, se ti rivolgi a qualcuno di loro ti fissano con gli occhi opachi, quando suona la campanella e l’ora è terminata si alzano per l’intervallo e sfilano davanti alla cattedra senza degnarti di una parola, di un sorriso, di un buongiorno.
Son dei maleducati, dice il collega.
Mica vero, o almeno non è tutto lì. Non lo fanno solo con te, col professore. Lo fanno anche tra loro. Lo fanno con la bidella che entra a far firmare una circolare, lo fanno col nuovo compagno appena arrivato, lo fanno con la segretaria e con l’omino che al bar vende i panini.
Gli mancano i fondamentali dell’umano.
Alcuni miei studenti son poveri cristi, ciechi al viso degli altri: trattano il volto umano – l’oggetto più significativo, affascinante e bello di tutta la realtà – come fosse un albero, un muro o un palo della luce.
A suo modo è un handicap, e non dei più lievi: gli occhi di chi li incontra per loro sono muti, privi di senso e vuoti di valore.
Per niente al mondo vorrei essere nei panni dei loro morosi e delle loro morose.

ERMETICA MENTE

Io lo so che tanto non si capisce, ma voglio scriverlo lo stesso.
Le cose brutte che dite di me.
Ecco. Quelle cose che raccontate tra di voi, quelle che poi quando arrivo state in silenzio.
Quelle cose lì non mi riguardano.
Sono commenti relativi all’idea che voi avete di me. Non sono me.
E quindi non mi riguardano.
E’ solo che a volte avverto l’urgenza di aver attorno gente che ama un po’ di più quello che veramente sono.
Gente che sa andare oltre i modi e coglie i significati.
Gente che sospende il giudizio e ascolta.
Allora quando succede, quando capita l’occasione di poter stare con gente così, sono contenta.
Ma proprio tanto.
Sinceramente.

STRANE DERIVE

Obiettivi del secondo quadrimestre, cos’è una religione, costruzione umana e storica, quali criteri per “scegliere” quale sia la religione “migliore” per sé, “conoscerle tutte e scegliere”, “no solo le più importanti, chissenefrega delle altre”, “costruirsi la propria religione prendendone un pezzo qua un pezzo là”, “ci sono atei che battezzano i figli, due miei amici l’hanno fatto”, “ci sono atei che si sposano in chiesa, perché è più bello, vuoi mettere la tradizione”, “so anch’io che i matrimoni falliscono, ci si sposa senza criterio!”, “eh, ma l’indissolubilità del matrimonio”, “ma cosa dici lo sai che poi l’amore finisce”, “ma non che non finisce, è l’innamoramento che finisce e che passa!”, “innamorarsi è una botta d’ormoni”, “amare è una decisione, è una questione di testa, devi avere i motivi per amare uno, devi avere le ragioni, mica come fate sempre voi donne che poi morite dietro agli stronzi!”

SICK BUILDING SINDROME

Il termine “sindrome dell’edificio malato” (Sick Building Sindrome, SBS) descrive una serie di sintomi riportati dagli occupanti di un edificio associati alla permanenza nell’edificio stesso, presentando questo condizioni di cattiva qualità dell’aria indoor tali da poterlo definire “malato”. Si manifesta con sintomi aspecifici ma ripetitivi e non correlati ad un determinato agente, quali: irritazione degli occhi, delle vie aeree e della cute, tosse, senso di costrizione toracica, sensazioni olfattive sgradevoli, nausea, torpore, sonnolenza, cefalea, astenia. I malesseri, avvertibili solo ed esclusivamente durante la permanenza all’interno dell’edificio, possono essere associati a determinate stanze o settori, oppure generalizzati all’intera costruzione. I sintomi si manifestano in una elevata percentuale di soggetti che lavorano in ufficio (in genere superiore al 20%), scompaiono o si attenuano dopo l’uscita e non sono accompagnati da reperti obiettivi rilevanti. Proprio l’assenza di reperti obiettivi focalizza il problema sulla adeguatezza della qualità dell’aria, intesa come soddisfacimento delle proprie aspettative e raggiungimento di uno stato di benessere. Infatti è difficile poter affermare che vi sia una vera e propria “malattia” causata dalla permanenza in edifici malati, mentre è certo che si può avvertire malessere e senso di irritazione.
(Sindromi correlate all’inquinamento indoor)

Il mio ufficio è malato.

IL RECENSIVENDOLO. OBLÒMOV

A me Oblòmov racconta una storia ben più tragica del solito, trito bla bla sulla pigrizia: la storia di come si possa perdersi e gettarsi via rifiutando l’impegno con la vita, o riducendolo alla propria misura. Che non è esser pigri, attenzione: è un’altra cosa, più sottile e pericolosa.
Certo, Oblòmov non fa una beata fava da mane a sera. Ma il vero problema di Oblòmov non è la sua “pigrizia”, è il suo consapevole scegliere di rifugiarsi in una realtà onirica e mentale invece di impegnarsi con quel che la vita impone: i resoconti dell’amministratore delle sue terre, la lettera di sfratto inviata dal padrone di casa, l’amore di Ol’ga. Il’ja Il’ic non
si è mai dato la possibilità di osservarsi in azione, e così non ha potuto far emergere, e quindi conoscere, tutti gli aspetti e le risorse della sua personalità. Sì, certo, è tanto buono e tanto, tanto tenero, ma non basta esser buoni, non dico per trovar moglie (Ol’ga ci mette un bel po’ a dargli il benservito; appena prende coscienza dell’irrecuperabilità di Il’jà Il’ic, però, non ci pensa due volte), ma anche solo per sviluppare se stessi. Oblòmov è buono come è buono il principe Myškin dell’Idiota, ma anche Myškin con tutto il suo darsi d’attorno finisce con lo scoprirsi (per ragioni del tutto diverse) tragicamente inadeguato alla vita.
Ma non è che Stolz – il suo fraterno amico, il suo alter ego, attivo, giramondo, avido di letture e di esperienze – stia tanto meglio. Incomparabilmente superiore a Oblòmov quanto a conoscenza del mondo, delle cose e di se stesso, ha tuttavia ridotto l’esperienza ad attivismo, e quel che vive, quel che impara, non lo giudica: si limita a ritrasmetterlo, a ripeterlo. È come se gli mancassero criteri adeguati per interpretare l’esperienza. Vorace lettore di tutto quel che gli passa per le mani, non possiede un centro al quale riportare il tutto. E quando
esprime un giudizio i suoi criteri non sono mai tutt’uno con la sua persona, sono sempre esterni, un copy & paste ricavato dalle sue sterminate e disordinate letture. Stolz in fondo – e la cosa è tanto più tragica quanto meno è consapevole – è un alienato. Come tanti, come chiunque viva a partire da misure non sue. Ma sono le misure alla moda, le misure di tutti, le misure di chi è trendy e à la page, e quindi Stolz è un figo, e l’alienazione è inavvertita.
Chi ha fatto davvero esperienza, chi si è realmente impegnata con la vita è Ol’ga; e infatti è l’unica che nel corso del romanzo manifesti un effettivo sviluppo, una crescita.
L’abisso tra Stolz e e sua moglie si rivela, verso la fine del romanzo, nell’angoscia di Ol’ga, tormentata da una tristezza indefinibile proprio quando tutto, nella sua esistenza, sembra essere andato a posto nel migliore dei modi.
Di fronte a un’Ol’ga che (per dirla con Tommaso d’Aquino) descrive tale tristezza come desiderio di un bene assente, come esperienza della strutturale e costitutiva incommensurabilità tra il desiderio umano di senso e qualunque suo tentativo di  realizzazione – sperimentato sempre come parziale e insufficiente -, Stolz si rivela del tutto inadeguato: prima interpreta la tristezza di Olga come frutto dei nervi (si sa, le donne). Poi finisce per ammettere che questa esperienza costituisce l’espressione suprema della maturità umana – e si stupisce di quanto sia cresciuta Olga, riconoscendola addirittura superiore a sè in questo ambito; ma l’unica cosa che sa proporre alla moglie come risposta a questa sete di infinito è, da un lato, l’invito ad immergersi nel compiacimento estetico per la propria grandezza d’animo e sensibilità, dall’altro, il volontarismo, l’attivismo, il senso del dovere, il buttarsi nella vita per quel che la vita richiede, non badando all’insoddisfazione e non indagandola nel profondo. In fondo, banalizzandola.
In un contesto in cui l’esperienza religiosa tradizionale viene assimilata senza residui alla vita arcaica dei servi della gleba, all’immobilità e al fatalismo dei contadini e dei domestici di Oblòmov, forse non poteva esservi altra risposta da parte di Gončarov: l’illusione di Stolz e di Ol’ga sarà quella di trovare risposta all’insoddisfazione esistenziale e alla domanda di senso che l’impegno con la vita risveglia – nell’impegno stesso. Cieco e immotivato.
I nipoti di Ol’ga e di Stolz tenteranno di dare una risposta in fondo non  dissimile aderendo alle parole d’ordine della Rivoluzione d’Ottobre. E ancora una volta l’esito si rivelerà tragicamente insoddisfacente.

NON APRIRE QUELL’ARMADIO

Un armadio non è un ripostiglio.
Non funziona nello stesso modo.
Sistemare l’armadio è un orrendo viaggio a ritroso nel tempo.
Sei costretta a fare i conti con te stessa, decidere se continuare a mentire o essere sincera e dirti la verità.
Vuotare l’armadio è come una seduta di psicoanalisi, una passeggiata nell’inconscio.
Perché l’armadio ti mette davanti a tutto ciò che in te è irrazionale.
Non si spiegano in altro modo i capi di vestiario che ancora conservi, che non sai come son finiti lì dentro e che mai e poi mai in uno stato di lucidità avresti comprato.
Non si spiega perché metà dei vestiti che hai sono di due taglie in meno rispetto a quella che porti.
Non si spiegano le decine di gonne, che tu la gonna non la metti mai, e neanche il numero sconsiderato di giacche.
Insomma, apri l’armadio e scopri che non sai chi sei e, in verità, neanche chi eri.
Allora ti siedi sul letto e provi a parlarti, cerchi di ragionare.
Che senso ha che tieni ancora quel vestito taglia 38 che tanto lo sai che non ci rientrerai mai.
Perché stai riordinando otto tubini neri di varie lunghezze e pensi davvero di rimetterli dentro?
Provane almeno uno. Lo vedi? Guardati.
E quella camicia lì? Non l’hai messa mai negli ultimi cinque anni, c’è bisogno di dire altro?
Mi alzo. Sono stanca di ascoltarmi. Io lo so. So tutto.
Aspetta che chiudo.

TACCO 10

Non sento freddo questa sera.
Non c’è l’aria che taglia la faccia, non c’è nebbia.
Solo l’odore della polvere da sparo che non si disperde e il silenzio.
Anche stanotte questa città tace.
Si festeggia in fretta, quel tanto che basta. E poi si tace.
Sono le due di notte e camminiamo al centro di una strada deserta.
Tu con le mani ficcate in tasca, io che mi guardo i piedi.
Si sentono solo i miei passi, il rumore dei tacchi sul selciato.
E non c’è neanche un po’ di ritmo nel battere pesante del mio andare.
Mi affretto e poi rallento, rompo continuamente il tempo.
Cerco un incedere regolare tra cacche di cani e sanpietrini.
Intanto ascolto e se ascolto solo sono sola.
In questa via stretta del centro c’è solo il mio rumore.
Ti guardo. Le mani in tasca, il passo leggero.
Mi affretto. Rallenti.
Scegliamo una frequenza e continuiamo a camminare.

BUON ANNO, VOYAGER 1!

Pare che il Voyager 1 stia finalmente arrivando al confine del Sistema Solare.
Come si può leggere qui, le particelle provenienti dal Sole, che hanno accompagnato la sonda fino all’attuale distanza di 17,4 miliardi di chilometri “colpendola alle spalle”, ora la investono sui fianchi, ad indicare che molto probabilmente il Voyager è davvero vicino all’eliopausa e in poco tempo (forse entro l’anno) si troverà nello spazio interstellare.
Certo, non se ne può essere del tutto sicuri, visto che prima d’ora nessun congegno costruito dall’uomo si è mai trovato da quelle parti.
E infatti già dieci anni e dieci miliardi di chilometri or sono si dicevano pressappoco le stesse cose!
Ma questa incertezza, lungi dal togliere fascino all’avventura del Voyager 1, caso mai la esalta vieppiù.

ScienceRay; Space.com