A me Oblòmov racconta una storia ben più tragica del solito, trito bla bla sulla pigrizia: la storia di come si possa perdersi e gettarsi via rifiutando l’impegno con la vita, o riducendolo alla propria misura. Che non è esser pigri, attenzione: è un’altra cosa, più sottile e pericolosa.
Certo, Oblòmov non fa una beata fava da mane a sera. Ma il vero problema di Oblòmov non è la sua “pigrizia”, è il suo consapevole scegliere di rifugiarsi in una realtà onirica e mentale invece di impegnarsi con quel che la vita impone: i resoconti dell’amministratore delle sue terre, la lettera di sfratto inviata dal padrone di casa, l’amore di Ol’ga. Il’ja Il’ic non si è mai dato la possibilità di osservarsi in azione, e così non ha potuto far emergere, e quindi conoscere, tutti gli aspetti e le risorse della sua personalità. Sì, certo, è tanto buono e tanto, tanto tenero, ma non basta esser buoni, non dico per trovar moglie (Ol’ga ci mette un bel po’ a dargli il benservito; appena prende coscienza dell’irrecuperabilità di Il’jà Il’ic, però, non ci pensa due volte), ma anche solo per sviluppare se stessi. Oblòmov è buono come è buono il principe Myškin dell’Idiota, ma anche Myškin con tutto il suo darsi d’attorno finisce con lo scoprirsi (per ragioni del tutto diverse) tragicamente inadeguato alla vita.
Ma non è che Stolz – il suo fraterno amico, il suo alter ego, attivo, giramondo, avido di letture e di esperienze – stia tanto meglio. Incomparabilmente superiore a Oblòmov quanto a conoscenza del mondo, delle cose e di se stesso, ha tuttavia ridotto l’esperienza ad attivismo, e quel che vive, quel che impara, non lo giudica: si limita a ritrasmetterlo, a ripeterlo. È come se gli mancassero criteri adeguati per interpretare l’esperienza. Vorace lettore di tutto quel che gli passa per le mani, non possiede un centro al quale riportare il tutto. E quando esprime un giudizio i suoi criteri non sono mai tutt’uno con la sua persona, sono sempre esterni, un copy & paste ricavato dalle sue sterminate e disordinate letture. Stolz in fondo – e la cosa è tanto più tragica quanto meno è consapevole – è un alienato. Come tanti, come chiunque viva a partire da misure non sue. Ma sono le misure alla moda, le misure di tutti, le misure di chi è trendy e à la page, e quindi Stolz è un figo, e l’alienazione è inavvertita.
Chi ha fatto davvero esperienza, chi si è realmente impegnata con la vita è Ol’ga; e infatti è l’unica che nel corso del romanzo manifesti un effettivo sviluppo, una crescita.
L’abisso tra Stolz e e sua moglie si rivela, verso la fine del romanzo, nell’angoscia di Ol’ga, tormentata da una tristezza indefinibile proprio quando tutto, nella sua esistenza, sembra essere andato a posto nel migliore dei modi.
Di fronte a un’Ol’ga che (per dirla con Tommaso d’Aquino) descrive tale tristezza come desiderio di un bene assente, come esperienza della strutturale e costitutiva incommensurabilità tra il desiderio umano di senso e qualunque suo tentativo di realizzazione – sperimentato sempre come parziale e insufficiente -, Stolz si rivela del tutto inadeguato: prima interpreta la tristezza di Olga come frutto dei nervi (si sa, le donne). Poi finisce per ammettere che questa esperienza costituisce l’espressione suprema della maturità umana – e si stupisce di quanto sia cresciuta Olga, riconoscendola addirittura superiore a sè in questo ambito; ma l’unica cosa che sa proporre alla moglie come risposta a questa sete di infinito è, da un lato, l’invito ad immergersi nel compiacimento estetico per la propria grandezza d’animo e sensibilità, dall’altro, il volontarismo, l’attivismo, il senso del dovere, il buttarsi nella vita per quel che la vita richiede, non badando all’insoddisfazione e non indagandola nel profondo. In fondo, banalizzandola.
In un contesto in cui l’esperienza religiosa tradizionale viene assimilata senza residui alla vita arcaica dei servi della gleba, all’immobilità e al fatalismo dei contadini e dei domestici di Oblòmov, forse non poteva esservi altra risposta da parte di Gončarov: l’illusione di Stolz e di Ol’ga sarà quella di trovare risposta all’insoddisfazione esistenziale e alla domanda di senso che l’impegno con la vita risveglia – nell’impegno stesso. Cieco e immotivato.
I nipoti di Ol’ga e di Stolz tenteranno di dare una risposta in fondo non dissimile aderendo alle parole d’ordine della Rivoluzione d’Ottobre. E ancora una volta l’esito si rivelerà tragicamente insoddisfacente.