A BRACCIA APERTE

C’era una spessa asse di legno grigio tutto scheggiato. Era sospesa tra due file di sassi impilati, sassi grandi raccolti nei campi durante l’aratura. Era sospesa lì, sotto le robinie. Ci si sedevano i vecchi a prendere il fresco nelle afose giornate di agosto, quando noi invece il caldo non lo sentivamo e correvamo sui sentieri sterrati che portavano ai vigneti.

Ma nelle giornate di vento forte quello era il nostro posto. Ci mettevamo in piedi sull’asse di legno e lasciavamo che il vento ci gonfiasse i vestiti. Aprivamo la braccia e aspettavamo di volare via urlando a squarciagola per sentire le parole andare lontano. Eravamo piloti di aerei o cavalieri lanciati al galoppo, eravamo leggeri e saltavamo sperando che l’aria ci sollevasse un po’ più in alto. Eravamo felici, a braccia spalancate nel turbinio delle foglie di robinia, nel naso il profumo dell’erba e le mani strette forte che se il vento ci porta via almeno siamo insieme e non ci perdiamo nel blu terso del cielo.

E quando, mentre giocavi una delle tue prime partite in un pomeriggio di primavera, cielo blu e vento forte, ti ho visto fermarti all’improvviso e allargare le braccia, ho visto la tua maglietta rossa gonfiarsi d’aria e il tuo sorriso mentre tutti gli altri rincorrevano la palla e l’allenatore urlava il tuo nome, io ho riso forte.
Fermo in mezzo al campo, i calzettoni abbassati, la braccia aperte per lasciar passare il vento. Un bambino felice.

E’ che anche oggi fuori tira una bella aria. Esco un po’ per farmi spettinare i capelli.
E tu? Lo senti ancora il vento?

IL PENSATOIO

Oggi ero lì che ricordavo le vacanze passate cercando le mie foto coi capelli corti. Così mi sono accorta che di un sacco di ricordi non ho alcuna documentazione fotografica al di là delle immagini ben impresse nella mia mente. Allora sono andata a spulciare nel vecchio blog. E ho trovato cose che mi han fatto ridere e commuovere, cose che avevo scritto e dimenticato, vivide immagini raccolte giorno dopo giorno per anni.
Un tesoro, il mio.

Io non lo so se vale riciclare ma quello che cercavo era lì, depositato una notte del novembre 2005.

Era una pensioncina in montagna, una delle poche vacanze che ho fatto con la mia famiglia.
Avevo nove anni, i capelli corti e le ginocchia sbucciate; mio zio diceva che avrebbe voluto un figlio come me, che da femmina avevo solo la Barbie ballerina.
Mi ero trovata un’amichetta, di cui non ricordo assolutamente niente se non che quel pomeriggio c’era anche lei.
La pensione era un piccolo edificio con poche camere al piano superiore, la sala da pranzo e la cucina a piano terra. In fondo al corridoio del primo piano c’era una porta finestra che si apriva su un piccolo balcone di servizio.
Quello era un buon posto, poco frequentato, e spesso andavamo lì a giocare.
Dalla ringhiera partiva un lungo filo che terminava legato ad un palo conficcato nel terreno; quelli dell’albergo ci stendevano i panni ad asciugare, ma quel pomeriggio non c’era niente di steso e la curva che la corda disegnava nell’aria era bellissima: dal balcone al prato, un invitante filo di ragnatela. L’idea era fantastica: scivolare giù appese a quella candida liana. E io ci provo.
Scavalco il parapetto e fin qui nessun problema; mi calo nel vuoto restando aggrappata con le mani alle sbarre della ringhiera e adesso viene il bello.
Per prendere il filo devo ruotare il busto e rimanere appesa con una mano sola; comincio a pensare che forse era meglio allenarsi un po’, prima di passare alla realizzazione del piano. Ci tento un paio di volte, ma inutilmente. Intanto l’amichetta si dà alla fuga e io, incapace di risalire, decido che non mi resta che scendere. Un volo di tre metri; un capolavoro. Allargo le braccia, mi piego sulle ginocchia in perfetto equilibrio; le piante dei piedi bruciano un pochino, ma non è niente a confronto del mio orgoglio ferito. Alzo la testa giusto in tempo per vedere la proprietaria della pensione in piedi, davanti alla finestra della cucina a piano terra che si mette le mani nei capelli e comincia a correre. Allora corro anch’io!
Quel che è successo dopo l’ho rimosso; mi vedo in braccio a mio padre che sorride, in camera coricata sul letto con mia madre che mi carezza la schiena. Ma forse sono altri momenti ed altri posti.
I miei figli dormono e mio marito è fuori; io sono qua che sorseggio un vino bianco, dolce e frizzante. Ora, ripensando a quella cosa, il filo bianco tra il balcone e il prato, sono ancora convinta che si poteva fare.
Non era impossibile passare nel verde dal blu lasciandosi scivolare.

16 LUGLIO 2011

Compiere gli anni in estate non è una cosa facile.

Quando ero piccola eravamo sempre in campagna.
Niente compagni di scuola, niente amichetti.
Ho un sacco di foto fatte intorno al tavolo rotondo io, lo zuccotto e i miei cugini.
Di anno in anno aumentavano le candeline sulla torta, scomparivano denti, apparivano occhiali.
Oggi le ho messe in fila. Eravamo sempre noi, di anno in anno diversi.
Poi son diventata grande e il 16 luglio faceva schifo uguale.
Gli amici sono al mare oppure sei al mare tu e il compleanno lontano da casa è complicato da organizzare.
Allora niente regali, che non si sa dove comprarli, e niente neanche quando torni, che ormai è il compleanno di qualcun altro e il tuo è già passato.
Anni di cene romantiche in posti meravigliosi, tu, tuo marito, i tuoi figli e qualche volta la suocera o la mamma. Che è bello anche così, per carità.
E poi ci son giornate come questa, giornate che sei felice anche se ti senti troppo grande.
Giornate che ricorderai per la sorpresa, per l’affetto, perché è stato tutto per te.
Giornate che sorridi come in quella foto.
Sì. Quella foto là, che abbracci il mondo.

 

STORIE D’ACQUA

Ci portava mia zia, che era l’unica che non lavorava.
Partivamo nel primo pomeriggio e scendevamo a piedi. Lei davanti e sei bambini urlanti dietro che scendevano la collina tagliando per i campi.
Già il viaggio era una festa: si andava al Trebbia.
Si andava a fare il bagno sotto il ponte o vicino al mulino, che c’erano i sassoni da cui si potevano fare i tuffi.
E l’acqua era gelata, i sassi scivolosi e non ci si poteva stendere a prendere il sole perché non c’era altro che ciottoli lì attorno. Una festa.
La zia teneva il conto del tempo: non si entrava in acqua se non erano passate tre ore dal pranzo. Poi sedeva all’ombra su un sasso grosso con il suo grembiule a fiori abbottonato davanti e ci curava mentre noi entravamo e uscivamo dal fiume in continuazione.
E quando lo diceva lei si usciva tutti dall’acqua, ci si toglieva il costume bagnato, si infilavano le mutande e si tornava a casa, scarpinando per i campi, in salita fino a casa.

PINZIMONIO. LA GENESI.

Quando ero piccola vivevo in casa coi miei nonni. Era un appartamento al quarto piano, senza ascensore.
La cucina era così piccola che a tavola non ci stavamo tutti e la nonna mangiava appoggiando il piatto sul ripiano dei mobili; c’erano solo due stanze da letto e io dormivo in camera coi miei e sul divano in sala non c’era mai posto così guardavo la televisione in bianco e nero seduta su una sedia. Eppure per me era una casa bellissima. Non ero mai sola.
E c’era il nonno Nino. Diceva che io ero il suo cestino di fiori.
Ricordo battaglie con i ferri da calza in corridoio, io che attaccavo e lui che si difendeva, e la nonna che mi insegnava a fare il mezzo punto. E poi ricordo la primavera. Perché quando arrivava maggio ce ne andavamo in campagna, nella casa dove era nato mio padre, e stavamo lì fino a novembre.
Io, la mamma, il papà e i nonni.
E il nonno Nino era nel suo regno. Maglia di lana anche ad agosto e camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, si sedeva sui sassi davanti alla conigliera e dominava l’aia. Lui lì aveva lavorato la terra, accudito le bestie, cresciuto quattro figli. E adesso aveva me, il suo cestino di fiori.
Nella casa dei nonni non c’era il bagno e la nonna scaldava l’acqua sulla stufa a riempiva una tinozza di plastica azzurra per lavarmi.
Quella casa di sassi racchiude tutti i più bei ricordi della mia infanzia.
La mattina il nonno beveva il vino rosso nella scodella e mangiava i peperoni in pinzimonio. Metteva il sale nella tazza del latte e poi aggiungeva l’olio, mi prendeva in braccio e mangiavamo i peperoni crudi. Rossi, verdi o gialli li tagliava a strisce e pocciavamo insieme. Erano la cosa più buona del mondo.
Poi una volta, avrò avuto cinque anni, devo avere esagerato e ho vomitato un giorno intero. La nonna ha dato un sacco di nomi al nonno e la mamma, quando è tornata dal lavoro, ha messo il broncio.
I peperoni al mattino non me li han fatti mangiare più. E per protesta non li ho mangiati più in assoluto.
L’anno dopo è nata mia sorella, han fatto il bagno nuovo nella casa vecchia, han cominciato a ristrutturare il fienile per farci quattro appartamenti per la mia famiglia e quelle dei miei zii. Ma questa è un’altra storia.

Insomma,  quando sono andata a fare la lista di nozze e mi han proposto il servizio da pinzimonio io non son stata capace di dire di no. Un piatto per le verdure e sei piccole ciotole decorate con verdurine colorate. Inutile dire che non l’ho usato mai.
Perché il pinzimonio si fa nella tazza del latte, si mette il sale e poi si aggiunge l’olio e si deve pocciare con qualcuno a cui si vuole molto bene, possibilmente di mattina.

L’AMICA DI TUTTA UNA VITA

Questa notte ho perso un’amica.
Prima di essere mia amica era amica di mio padre e di mia madre.
Era amica dei miei nonni.
Poi è stata amica di mio marito e dei miei figli.
E’ stata l’amica di una vita.
Era una donna asciutta.
Non ti diceva che eri bella o che eri stata brava. Ti stringeva forte la mano e c’era dentro tutto.
Era una donna grande, con il grembiule stretto in vita.
Una che sapeva voler bene anche ai tuoi sbagli, senza negarli mai.
Ti guardava e sapevi sempre cosa pensava.
Quando in questi anni mi parlava di mio padre, delle cose che non sapevo di lui, di cose che lui a noi non aveva detto ma che a lei aveva confidato,  me lo vedevo davanti, così com’era.
Perché lei conosceva davvero le persone e ne tratteneva l’essenza.
E di lei era l’essenza che colpiva. Quel suo stare nel mondo senza fronzoli, senza maschere.
Quella forza che mai l’ha abbandonata in una vita che non è stata facile.
E nonostante tutto quando rideva lo faceva con gusto.
Ero seduta al tavolo della sua cucina dopo l’intervento che ha segnato l‘inizio della fine del mio papà.
Correvo lì nei mesi in cui avevo smesso di parlare con mia madre.
L’ho costretta ad ascoltare i miei rancori, le mie delusioni, le paure.
In quella stanza ho trovato tante volte rifugio.
Nella sua casa. Quella che lei aveva visto costruire e di cui conservava in testa lo schema degli impianti e la scadenza delle manutenzioni. Una donna pratica.
Per lei neanche morire è stato facile.
Sempre presente. La mente vigile in un corpo stanco che ha combattuto per 96 anni.
Ora riposa. E fuori c’è il sole.
Un’amica da sempre.
Non si perde un’amica così.