Ho perso il papà che avevo sedici anni.
Una volta gli ho detto che mi ammazzavo. La sberla che mi ha dato me la ricordo ancora adesso.
Era la prima volta che mi metteva le mani addosso, ed è stata anche l’ultima.
Qualche anno prima suo fratello, mio zio, si era suicidato. Ma io non lo sapevo, me lo disse mia madre qualche tempo dopo la morte di papà.
Un tumore fulminante al fegato.
(È che in questo lavoro se ne sentono tante. Alcune leggere, altre pesanti. Alcune piccole, altre grandi. Altre, grosse. Talvolta troppo. Allora ogni tanto vien voglia di scaricare, di deporre il peso, di metterne giù almeno una parte. Non per disfarsene, no. Solo, per guardarlo con un minimo di distacco e recuperare un po’ di oggettività. Tanto per tirare un attimo il fiato. E poi riprenderselo sulle spalle, e condividerne almeno un atomo.)
Alla fine è sul “condividere” che ci misuriamo tutti; sembra banale, ma non lo è affatto. Anche i ragazzi, in fondo, ci misurano su quello.
[che dire, oltre che condividere un atomo della tua condivisione?]
Ti abbraccio
Grazie.
Qualche settimana fa, ad un corso di aggiornamento — sono un tuo collega — ci hanno detto che un buon insegnante è sempre capace di “mettersi nei panni” dei suoi studenti. Io ho sostenuto che in certi panni non ci si può mettere, e che solo pensarlo è da presuntuosi. Ecco, se fossi stato capace avrei dovuto usare le tue parole.
(Grazie a te)