ASTRATTO E CONCRETO

Prof, ma il tempo c’è, è qualcosa di concreto. Si sente, il tempo che passa, lo si vede.

Sto spiegando il valore del presente. A studenti di quattordici, quindici anni, tutti proiettati verso il futuro, verso il quando sarò grande o anche solo verso il quando verrà sabato pomeriggio (se non addirittura  verso il traguardo minimo del quando suonerà la campanella), cerco di far comprendere il valore eterno dell’istante presente, l’unico che ci sia dato di vivere, fuori dalle metafore del passato (il ricordo presente) e del futuro (l’attesa, la speranza, il desiderio, comunque sempre e solo – e come potrebbe essere altrimenti – presente).
Forzando al massimo e tentando di suscitare reazioni, dico loro che il tempo non esiste, che se hanno del tempo l’immagine di un fiume che scorre, di qualcosa che “passa”, beh, propriamente, in quel senso, non esiste un bel nulla. Non esiste davvero, in realtà. Nel concreto.
Ed è lì che salta fuori l’osservazione del mio studentello.
Che io rintuzzo e smonto da vecchio sofista, ma che apprezzo a non finire.

Perché fra tutte le opposizioni categoriali con le quali ci misuriamo ogni giorno (bello-brutto, buono-cattivo, vero-falso, giusto-sbagliato…), quella astratto-concreto la considero la più riduttiva e menzognera.
Tutte le altre opposizioni dividono il mondo in due parti grosso modo equipotenti. Per ogni affermazione vera ce n’è una falsa, per ogni cosa giusta c’è un errore. Ci son tante cose belle, ma anche tante cose brutte, e l’elenco delle cose vere e delle cose false finisce per equivalersi.
Invece, cose concrete e cose astratte non si equivalgono. Le cose astratte sono molto più delle cose concrete, si pensa. Concreto è quel che è visibile e toccabile. Quel che occupa spazio. Ciò che fa male quando ci sbatti contro. Ma le cose astratte non si vedono e non si toccano. In un certo qual modo non esistono davvero, o almeno, la loro è un’esistenza di serie B. Le cose astratte sanno d’inganno. Si mascherano dietro la potenza della parola, fingono uno spessore che non hanno, non più di quanto ne abbia il fiato necessario a nominarle. Le cose astratte sono un residuo di concezione realista, l’ultimo rifugio della metafisica platonica sfuggito al positivismo.
Fin dalle elementari ci insegnano a braccarle, a render loro la vita difficile, a individuarle per tempo. Fin dai primi timidi addestramenti all’analisi grammaticale. Non bastava individuare i nomi e distinguerli dagli aggettivi e dai verbi; non bastava individuarne genere e numero, no: occorreva distinguere se la cosa era concreta o astratta. Sedia: nome comune di cosa, concreta, femminile, singolare. Dolcezza: nome comune di cosa, astratta, femminile, singolare. Di qua o di là. Di qua, il regno della solida realtà; di là, quello delle pure parole, dei concetti, del flatus vocis.
Poi, crescendo, mi sono reso conto che c’era qualcosa che non mi tornava. Proprio a partire dall’analisi grammaticale. Giustizia: nome comune di cosa. Astratta. Ma come, astratta?! E pensavo a quanto mi faceva male subire ingiustizie, a quanto mi provocasse dolore…  Aspetta: dolore. Dolore, è concreto o astratto? Non si scappa: è astratto, non lo vedi e non lo tocchi. Ma come, astratto?! Questo dolore che oggi che mi son rotto un braccio mi fa urlare e piangere mentre mia madre mi porta in ospedale, è astratto? E l’amore? Questo aggrovigliarsi di visceri, questo volerti venire a trovare, questo desiderio (desiderio? astratto!) di vederti, senza sapere che dirti, questa inspiegabile euforia, questo strano misto di dolcezza e paura (paura? astratta!)… tutto astratto. Vuoi mettere con la sedia? Quella sì che è concreta.
Ora, mentre lavoro coi miei ragazzi e tento d’insegnar loro, col tremore ai polsi, cos’è la vita (eh, sì, caro collega, perché se pensi di dover insegnare qualcosa di meno di questo, attraverso la tua letteratura, la tua chimica, la tua biologia e la tua tecnologia delle costruzioni, beh, non hai capito un tubo del tuo mestiere), fra le mille altre cose cerco di far passare (o di inculcare) questa strana legge: crescere, diventar grandi, diventare donne e uomini significa render concreto l’astratto. Significa fecondare il regno monotono e insensato del concreto grammaticale con la possibilità di ciò che sembra astratto. Significa provare sulla pelle, nella carne, nelle viscere quant’è concreto l’astratto. O come ha detto qualcuno che se ne intendeva, significa divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore. Vizi e valori, astratti; eppure, esperto, expertus, sperimentato, capace di provare, in concreto, sulla propria pelle, quei vizi e quel valore.

E allora apprezzo il mio ragazzo che dice che il tempo esiste, che si prova, che si sente, che si vede. Quel che vede, sente, prova non è, in senso proprio, il tempo, è qualcos’altro. Cosa sia glielo dirà la vita. Per l’intanto ha scoperto che qualcosa che è giudicato astratto può essere provato. Non se lo dimenticherà. Per trarne le debite conclusioni gli ci vorrà solo tempo. Che non esiste, che è astratto, ma che ci è dato proprio per comprendere come lasciarci alle spalle quella distinzione menzognera.

6 thoughts on “ASTRATTO E CONCRETO”

  1. E’ abbastanza intuile, credo, che io ti dica che secondo me questo è un post *bellissimo*, proprio bellissimo. Però, insomma, è inutile ma te l’ho detto. Concretamente.

    1. (Uh, grazie!) (che poi, in inglese, “concrete” è il cemento, che è cosa bella e utile, eh, ma un po’ statica, ferma e disorganica… perfino un “abstract” è più stimolante)

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