La rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV non fu immediatamente successiva al decreto sulle investiture: solo che il re mostrò di non tenerne conto, inviando in Lombardia uno dei suoi fedeli, il conte Everardo, che, radunata una dieta a Roncaglia, fece eleggere Tedaldo, suddiacono milanese e cappellano del re, nuovo arcivescovo di Milano – nonostante ancora vivesse il candidato della pataria, già approvato dalla sede apostolica – e investendo negli stessi mesi dei vescovadi di Fermo e Spoleto, rimasti vacanti, due persone a lui fedeli e sconosciute al papa. Si trattava del rafforzamento e dell’estensione anche all’Italia di quella politica ecclesiastica che si connetteva intimamente per Enrico al problema del rafforzamento della compagine del regno. Alle proteste di Gregorio VII e alle minacce di scomunica e di deposizione, Enrico rispose nel gennaio 1076 con le assemblee di Worms e di Piacenza, dove gli episcopati rispettivamente tedesco e lombardo decretarono la deposizione di Gregorio VII. La replica di Gregorio fu nel concilio romano del febbraio la deposizione di Enrico, la sua scomunica e lo scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà.
Iniziava così una rottura che, a parte brevi ed effimeri compromessi, sarebbe durata quasi cinquant’anni, rompendo quel mito della concordia e reciproca collaborazione fra papato e Impero, al quale si richiamavano i teorici di una presunta restaurazione carolingia.
G. Miccoli, La storia religiosa. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIIl . Vol. 2: L’Italia religiosa, Il Sole 24Ore-Einaudi 2005, p. 502